IL CENTRO VA A DESTRA

IL CENTRO VA A DESTRA IL CENTRO VA A DESTRA Come Vanticomunismo del ceto medio condiziona la politica Lo studio di Setta, da De Gasperi alla seconda Repubblica UN'ITALIA «poco sensibile, se non ostile, ai miti dell'antifascismo e della Resistenza», incline a rimpiangere l'atmosfera di «tranquillità» sociale assicurata dal regime di Mussolini. Un'Italia del ceto medio impregnato di moderatismo e di robusti sentimenti anticomunisti, disponibile a inchinarsi ai richiami della Chiesa cattolica, diffidente nei confronti della politica, devota ai valori della famiglia, timorosa del caos sociale, anti-intellettualistica, ostile al cattolicesimo di sinistra, istintivamente conservatore. Un'Italia di «destra» che ha avuto un peso politico e ha giocato un ruolo storico nella vicenda della Prima Repubblica molto più consistente di quanto non dica la storia delle «sigle» politiche poco sensibile ai movimenti di quel continente sommerso e inesplorato. E' la Destra ramificata e proteiforme indagata dallo storico Sandro Setta nel volume La Destra nell'Italia del dopogueira uscito da Laterza. Un libro che dimostra come la sorpresa per l'improvviso e fragoroso irrompere della Destra in questo primo scorcio di Seconda Repubblica sia alimentata in realtà da un errore concettuale e da un luogo comune storiografico. L'errore concettuale consiste nella perdurante propensione a identificare la vasta e affollata area della Destra post-bellica entro il recinto del neofascismo e in particolare del partito, il msi, che del turbolento universo neo-fascista è stato il perno e il rifugio. Il luogo comune storiografico pretende a sua volta che la Destra italiana, una volta neutralizzata e infine ricondotta nella sua frazione maggioritaria e più diffusa in quel partito contenitore onnivoro ed eclettico che è stata la de, abbia a tal punto diluito i suoi connotati da smarrire ogni traccia di sé e ogni autoconsapevolezza di «destra». Documenti alla mano, nella sua ricostruzione Setta restituisce invece alla Destra un ruolo determinante nei primi anni della Repubblica. Rappresentato dai monarchici e dall'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, il ceto medio diffidente nei confronti del ciellenismo, impaurito dallo spauracchio dell'«epurazione» vissuta come l'incubo di una purga di massa finalizzata alla decontaminazione degli ambienti vastissimi compromessi con il fascismo, vivacemente restio all'abbi accio con la sinistra, quel ceto medio rappresentò a tal punto la spina nel fianco del cattolicesimo liberal-democratico di Alcide De Gasperi da dettare, secondo Setta, le scelte decisive della democrazia cristiana. La Destra neofascista era ancora dispersa e braccata nel 1946, ma bastò un clamoroso successo del Fronte qualunquista nelle amministrative dell'autunno di quell'anno per cancellare l'illusione democristiana di aver conquistato Giannini De (inspiri per sempre i favori dell'elettorato moderato. Era vero il contrario. I ceti medi, conclude Setta, «sentendosi delusi» nel '46, «traditi nella loro istanza fondamentale anticomunista, avevano abbandonato in massa la de, costringendola a una dura autocritica che aveva contribuito non poco all'espulsione di socialisti e comunisti dal governo». Quei voti, la de doveva guadagnarseli dimostrando ogni volta che con la sinistra il discorso non si sarebbe riaperto. Il suggerimento storiografico di Setta è in sostanza che senza l'assillo della Destra rappresentata dai monarchici, dai qualunquisti di Giannini, dai missini, dal conservatorismo cattolico fortemente incoraggiato dal Vaticano, De Gasperi avrebbe imboccato con maggior riluttanza la strada dello scontro frontale del 18 aprile '48. ANDAVA matto per i cioccolatini. Evhen Konovalec, leader nazionalista ucraino in esilio oltre i confini sovietici, era seduto al ristorante Atlanta di Rotterdam il 23 maggio 1938 quando arrivò un giovane conoscente. Qualche parola cordiale, una scatola di dolci lasciata lì in regalo, un arrivederci. E mezz'ora dopo l'esplosione. I cioccolatini erano una bomba con innesco a tempo: bastava cambiare la posizione della scatola da verticale a orizzontale per farla esplodere. Il «giovane conoscente» era un agente sovietico infiltrato, Pavel Sudoplatov, che racconta questa «eliminazione» come una delle sue prime benemerenze al servizio di Stalin. Le memorie di Sudoplatov, diventato generale e dirigente nei servizi sovietici fino alla caduta di Berija, sono state raccolte dal giornalista americano Jerrold Schecter con la moglie Leona, e hanno suscitato subito un gran clamore. Ora appaiono in Italia da Rizzoli (col titolo Incarichi speciali) trascinando una coda di polemiche. Motivo? Nel capitolo dedicato allo spionaggio atomico l'autore afferma tranquillamente che le più importanti informazioni per la messa a punto della prima bomba sovietica vennero dagli scienziati del Progetto Manhattan: Robert Oppenheimer, Enrico Fermi, Leo Szilard. E con l'appoggio di Niels Bohr. Non che i tre fossero spie reclutate, ma lasciavano copiare dalle talpe i documenti segreti, erano «partecipi del meccanismo» e lo facevano in nome della pace, per aiutare la Russia, allora alleata contro la Germania. Tesi rovente che ha scatenato un coro di smentite. Incredulo il fisico Edward Teller, indignata Nella Fermi Weiner, figlia dello scienziato: «Mio padre era un uomo di scrupolosa onestà, un uomo che seguiva le regole... Era fuggito dal regime fascista perché odiava il totalitarismo e per proteggere la moglie ebrea. Non si sarebbe certo prestato a favorire un'altra forma di totalitarismo rappresentato dal regime di Stalin». La disputa è aperta, non ci sono prove d'archivio, su certe operazioni segrete Sudoplatov, che ora ha 86 anni, lo si ascolta come una memoria storica. Ma non è sempre la «bocca della verità». A volte sbaglia, è impreciso sulle date, contraddittorio nelle idee come quando sembra giustificare Stalin e Berija («Gli uomini che hanno incarichi affidati al «Lab X» sia scomparso, ma nell'aprile del 1992 il passaporto e alcuni effetti personali di Wallenberg furono trovati per caso tra «materiali non classificati» in una stanza della Lubijanka. Sudoplatov, ex pupillo di Berija, a volte dice di sapere e a volte no: solo nel 1988 avrebbe appreso la verità sui 21 mila ufficiali polacchi trucidati a Katyn, il che lascia qualche dubbio. Ammette una «personale conoscenza» di quattro casi di avvelenamento (uno è l'arcivescovo uniate Romza, in Ucraina) quando gli ordinarono di far apparire le condanne a morte come decessi per cause naturali. Racconta un colloquio notturno nel 1953 con Stalin vecchio e stanco («Il suo aspetto confermava le voci che avesse sofferto di due ictus»). Il capo del Cremlino gli mostra un piano per l'eliminazione di Tito. Proposto da Iosip Grigulevic, agente clandestino in Italia, prevede l'uso di uno spray letale che nebulizza batteri della peste polmonare, pistola con silenziatore, o scatola esplosiva. «Dissi a Stalin che i suggerimenti erano ingenui, perfino puerili. Rispecchiavano una pericolosa incompetenza nella tecnica di progettazione ed esecuzione degli assassinii politici...». Stalin muore poco dopo, l'epurazione dei servizi segreti travolge Berija e i suoi collaboratori, anche Sudoplatov finisce nei sotterranei della Lubijanka. Applica le istruzioni suggerite, agli agenti colti in flagrante: non parlare, non mangiare fino alla prostrazione fisica e all'infermeria. Ma resterà in carcere per quindici anni, nonostante gli appelli, nonostante i vantati successi patriottici contro gli occupanti nazisti e nello spionaggio atomico. Per ironia della sorte questo servitore del regime (che giustifica le atrocità con «l'immane compito di trasformare un paese arretrato in una moderna superpotenza»), questo dirigente-ombra, spazzato via dalle lotte di potere, viene riabilitato solo con la fine dell'Unione Sovietica. Gli hanno ridato la pensione, non le medaglie. Vecchio e malato, ripete: «Non si dimentichi che sono vittima della repressione politica». Anche la sua vita è una lezione. pre nel 1952, un anno prima dello scontro furibondo sulla cosiddetta «legge truffa» in cui si sarebbero decisi i destini della formula centrista, De Gasperi non esitò a contemplare in un'intervista la possibilità teorica di un ritorno alla monarchia mediante referendum fino alla mano tesa nei confronti dei monarchici di Covelli: «non sarebbe meglio prender tempo per fare la nostra conoscenza?». Nella ricostruzione fornita dal libro di Setta, insomma, emerge che per la de, anche dopo la morte di De Gasperi e l'ascesa della sinistra democristiana, la possibilità di un'apertura alla Destra è stata, fino alla fine degli anni Cinquanta, un'eventualità tutt'altro che remota. A mettere la pietra tombale su quella ricorrente tentazione furono i fatti del 1960 e la brusca e drammatica conclusione del governo Tambroni. Da quel momento, insieme alla nascita del centro-sinistra, comincia per la Destra italiana, un lungo inverno di marginalità se non (interrotta saltuariamente da qualche effimera fiammata) di irrilevanza politica. Ma il blocco antropologico e culturale della Destra italiana non si sgretola e anzi, nelle convulsioni della Prima Repubbblica, riappare più vigoroso di prima. Fino a costringere gli eredi di De Gasperi nella concitazione degli stessi dilemmi in cui si era imbattuto lo statista trentino. E anche dopo, a battaglia stravinta, non si sarebbe attenuata per la de la paura per il brontolio della Destra. Il centrismo degasperiano tenne sì a bada la Destra, ma sempre al prezzo di non rompere definitivamente con il mondo che in quella Destra si riconosceva. In questo quadro colpiscono, ad esempio, le oscillazioni degasperiane registrate da Setta. De Gasperi, certo, si sottrasse alle pressioni vaticane per 1'«operazione Sturzo» del '52 destinata alla formazione di liste civiche unitarie con missini e monarchici. Ma nello stesso anno definì «saggio» e «accorto» il tentativo di Guido Gonella di intavolare trattative Con Achille Lauro per la presentazione di liste comuni nel Mezzogiorno, «dichiarandosi disposto ad accogliere anche il msi, purché rinunciasse al proprio simbolo». E sem-