Nel fortino del vescovo rosso Monsignor Ruiz: il Papa preghi per il Chiapas

Nel fortino del vescovo rosso I latifondisti bruciano davanti alla curia l'effigie del prete più amato e odiato del Messico Nel fortino del vescovo rosso Monsignor Ruiz: il Papa preghi per il Cbiapas VIAGGIO NEL VULCANO DELLA CRISI c SAN CRISTOBAL ON il kalashnikov nella mano destra e la falce e martello dipinti sulla tiara, il vescovo Samuel Ruiz Garda brucia nell'aria azzurradell'altopiano, avvolto in fretta dalle fiamme che scoppiettano nel suo corpo di paglia. «Muori, puerco d'un comunista e di un asesino», gridano le belle donne dei «ganaderos», dei latifondisti, respirando eccitate la fuliggine del falò delle loro paure. Qui dentro, nella frescura della Casa Diocesana, protetti da mura spesse quattro secoli e dalla corazza di chi si sente nel giusto, le urla dei «tierratenientes» che hanno organizzato il rogo del vescovo in effigie davanti al sagrato, non riescono ad arrivare. Il vecchio prete che mi siede davanti in carne ed ossa, il vescovo «rosso» di San Cristobal de las Casas, Samuel Ruiz Garcia, chiamato Tatik «papà» dai maya nella loro lingua tzotzil, sembra essere soltanto questo, un vecchio curato di campagna che ha forse preso troppo alla lettera il messaggio del Vangelo e si scopre così catapultato nel cuore di uno «scandalo» planetario di sangue, violenza, mercati dei cambi e satelliti. Vescovo - «mi chiami solo padre» - va bene, padre Samuel, se il Papa fosse qui con noi, se Giovanni Paolo II fosse seduto a questo tavolo della canonica della cattedrale, circondato dal cordone degli indios che bivaccano giorno e notte mangiando fagioli per proteggere la cattedrale, qui al limitare della «Selva» dove l'esercito dà la caccia ai ribelli zapatisti, che cosa vorrebbe dirgli? «Niente che lui non sappia già, il Papa sa già tutto, che potrei dirgli io, povero cura, parroco di campagna?». Ma il Vaticano è contro di lei, la Conferenza episcopale messicana chiede la sua testa, il Nunzio Apostolico a Città del Messico le fa la guerra, qualcosa, al Papa, avrà pur da chiedere? «Sì, una cosa sì - sorride sfiorandosi con le dita il pettorale di perline infilate dagli indios che porta sempre sotto la giacca borghese - , di inginocchiarsi con noi, con me e con gli indigeni, a pregare per la pace di tutti. Ma lo so, non accadrà, questa è sciencc fiction. Però, se potessi parlare al Santo Padre gli chiederei almeno di pregare da lontano per noi». E di inginocchiarsi a pregare, anche al più torvo dei miscredenti viene un desiderio irresistibile, quando finalmente si lasciano le città, le capitali e ci si arrampica ai 2100 metri di questo zoccolo insanguinato del Messico, sulle falde di queste montagne che portano in ogni valle, in ogni selva, in ogni capanna di poveri come in ogni casa di ricchi, il segno di una disperazione storica che si misura in secoli, ma che si scandisce ancora in secondi. La preghiera, al Dio che volete, al santo che vi pare, alla Madonna o al Serpente di Quetzlacoatl, sembra il solo ricorso razionale, la sola via possibile in una terra che non conosce mai soluzioni, ma soltanto sopraffazioni. Mai pace vera, ma intervalli di silenzio fra le urla. La rivolta degli «zapatistas» che da 14 mesi corre nelle foreste e nelle valli delle «Montagne Azul», i monti azzurri della Selva di Lacandona, e la controffensiva dell'esercito federale, che dal 9 febbraio è arrivato con elicotteri, aerei, autoblindo per ricacciare gli indios nella selva in uno scenario da «Apocalypse Now» messicana, non sono soluzioni, come non lo sono le amnistie, le petizioni, le pressioni della stampa di tutto il mondo, le periodiche infusioni di soldi che finiscono regolarmente nelle tasche di chi controlla il potere economico e politico. Tutti noi qui, giornalisti e «sandalistas», la gente coi sandali che viene da fuori a respirare un'altra boccata di terzomondismo, i politici ed i preti, i generali e i «rebeldes» sanno benissimo che alla fine, quando l'ultima camionetta e l'ultima antenna se ne saranno andati, i soli sconfitti resteranno sempre loro, i 100 mila indigeni della selva e dei Monti Azzurri. Il popolo condannato da sempre «a bere il vento e a mangiare tutto quel che si muove», come ha scritto Gabriel Scherer. Sul tavolo della Casa Diocesana, accanto alla cattedrale color zafferano, sotto grandi ritratti di cardinali spagnoli, di Benedetto XV, di Pio X e soprattutto di Papa Giovanni (Wojtyla ci sarà sicuramente in qualche stanza, ma io non l'ho visto), arrivano i fax e le fotocopie, i figli tecnologici dei tadzebao cinesi, che portano i bollettini di una guerra che non ò guerra e non sarà mai pace, testimonianze di villaggi devastati, segnalazioni di colera che avanza nei boschi dove gli indios terrorizzati dall'esercito sono scappati, racconti di violenze inimmaginabili eppure quasi banali in questo zoccolo di Messico, testicoli bruciati per ottenere confessioni, donne violentate con le canne dei fucili, indios appesi per i piedi a marcire nella foresta per «dar lezione» a chi è vivo, racconti sempre impossibili da verificare e sempre impossibili da ignorare. «Fratelli» e «sorelle», frati, suore, diacone e diaconi, donnine maya con il bambino infagottato sulla schiena nella coperta a colori huipel, bussano alla canonica per annunciare imminenti assalti di «ganaderos» e della loro «guardia bianca», i gorilla armati dei latifondisti, per far fuori finalmente «el comandante Sam», il vescovo Samuele che i possidenti accusano di essere «il grande vecchio» dell'insurrezione nel Chiapas. Non è vero, non arriva ancora l'assalto. Potrà arrivare stanotte, domani, fra un mese, probabilmente quando l'ultimo reporter avrà finito i soldi delle spese, quando l'ultimo direttore ne avrà avuto abbastanza di reportages come questo, quando l'ultimo fotografo free lance si sarà stancato di vivere di brodo di pollo e d'inseguire immagini che non ci sono, e quando la televisione scoprirà una tragedia più utile per i ratings in un altro angolo di mondo. Ha paura di morire, vescovo, mi perdoni, «don» Samuel? «Non voglio parlare di me, se parliamo di me la mando subito fuori dalla canonica e interrompiamo l'intervista». Ma ha paura almeno di essere dimissionato dal Vaticano, dal Papa? «Per ora sono qui, vede - e si tocca le braccia, i polsi, il petto -. Non sono un fantasma, non sono ancora un cadavere e sono qui a lavorare per la pace non per la guerra. Sono certo che il Papa lo sa: il costo della guerra sarebbe infinitamente superiore a qualsiasi costo della pace». Ma perché ò ancora vivo, lo ò grazie a quegli indios che dormono ogni notte fuori dalla sua porta, accovacciati per terra, pronti a morire per darle il tempo di scappare? '^Perché la stampa internazionale, dai primi giorni del '94, si è accorta di noi, del Chiapas, degli indigeni e ha frenato la guerra». Sento un brivido: mi sembra di esser tornato nella Mosca di Breznev: così parlavano i dissidenti a noi giornalisti esteri. Non dimenticatevi di noi. Voi siete la nostra unica salvezza. Da due settimane, da quando l'offensiva dei militari per ripren¬ dere il controllo dei villaggi occupati dai ribelli e mostrare a Clinton che il governo messicano meritava così i prestiti americani, si è fermata alla soglie della «selva di Lacandona», ultimo rifugio degli indio, ufficialmente non succede più nulla. Ufficialmente, in Messico non succede mai nulla. L'intero Stato del Chiapas, la città di San Cristobal, i villaggi abbandonati ormai sia dagli indios, che dall'ezln, il fronte zapatista, sono ripiombati in quella dimensione surrealistica che solo l'America Latina sa produrre. Tragedia e commedia, guerriglieri e venditori di souvenirs, voglia di amore e di morte coabitano come sempre. La mattina presto, negli alberghi, famiglie di intrepidi turisti americani biondi, decisi a visitare le fantastiche rovine maya a Palenque, partono contemporaneamente a fotografi che si avventurano nella giungla decisi a scovare un guerrigliero, a documentare un'atrocità, a guadagnarsi la giornata. La sera, di ritorno, turisti e reporters si scambiano fotocolor delle piramidi con negativi di cadaveri gonfi nella giungla. I posti di blocco dell'esercito interrogano chi si avventura verso la selva, sospettano di tutti, ma soprattutto degli italiani, accusati di simpatie per il bel «subcomandante Marcos» e quindi di portare aiuti ai ribelli. Ma sullo Zocalo, sulla piazza principale, gli scu-. gnizzi maya ti perseguitano sotto il naso della polizia e dei soldati per venderti i «marquitos», le bamboline con il passamontagna, con i passamontagna del comandante ribelle. Nelle librerie si vendono i videotapes di propaganda zapatista, accanto alla stampa più ufficiale governativa. I militari sono equipaggiati magnificamente con le armi e le uniforme smesse dagli americani dopo la guerra nel Golfo. Da lontano sembrano terribili, invincibili. Da In uno scenario da Apocalypse Now i soldati danno la caccia ai ribelli nella foresta Nelle librerie si vendono i video dei guerriglieri accanto alla stampa filo-governativa , domani, fra un mese, probabilmente quando l'ultimo reporter avrà finito i soldi delle spese, quando l'ultimo direttore ne avrà avuto abbastanza di reportages come questo, quando l'ultimo fotografo free lance si sarà stancato Nelle librerie si vendono i video dei guerriglieri accanto alla stampa filo-governativa

Luoghi citati: America Latina, Città Del Messico, Messico, Mosca