Il fantasma dell'Accademia

Un intenditore d'avanguardia Mostra thriller a Bologna su un misterioso lascito giunto a Brera nel 1857 Il fantasma deirAccademia Un intenditore d'avanguardia NBOLOGNA 0, non è tanto la mostra, questa volta, benché schieri, nella chiesa di San Gior gio in Poggiale, alcuni fogli davvero affascinanti, come le mani giunte - isolate sul bianco - di Guido Reni, o gli arruffati, innervositi «pensieri» del Guercino, i nudi morbidi di Giovan Gioseffo Dal Sole, oppure gli ispirati ritratti virili del Bononi e di Gaetano Gandolfi. Non è tanto la mostra, che interessa, quanto il lavoro minuzioso e prezioso che è stato fatto, in questi ultimi anni, su un.lascito sinora abbastanza misterioso giunto a Brera quando s'inaugurò la sua Accademia. Dopo attento studio, ha dato vita a questa proficua schedatura, oltre a uno stimolante catalogo Mazzotta, che pro¬ pone un romanzo poliziesco a molte mani: dal direttore di Brera Petraroia al curatore Daniele Pescarmona, da Andrea Emiliani a Renalo Roli, da Francesca Valli a Luisa Ciammitti, che profila quest'attraente racconto d'un precoce conoscitore e collezionista del Settecento. Sino a qualche anno fa, infatti, si pensava che il nucleo considerevole di disegni, circa 534 fogli, acquistato nel 1857 per una somma assai ragionevole, acquisizione ad uso didattico per gli studenti dell'Accademia, provenisse da un lascito meno caratterizzato. Ora, invece, si è finalmente illuminata la figura singolare di Filippo Acqua, questo nobile marchigiano di Osimo, imparentato con i Leopardi, giurista pieno di zii canonici (chi dice legato al papa Clemente XII ed attivo nella battaglia contro i giansenisti, chi con Benedetto XIV e artefice di lotte con i valdesi, chi, grecista ed ebraista, vescovo di Spoleto), allevato al servizio del Cardinal Crescenzi e dedito soprattutto alle raccolte antiquarie. Sinora non figurava altro che come un fantasma, flatus vocis evocato dalla Istoria pittorica del grande trattista Luigi Lanzi, che lo ringraziava per avergli segnalato una falsa firma di Perugino apposta su un Bastianino. Ora, invece, dopo queste illuminanti ricerche, si disegna meglio la sua fisionomia di intenditore e di conoscitore avanti lettera. E' lui che, con la sua umile sigla «F.a.», cataloga disegni, discute le attribuzioni, ripensa nervosamente re- trocessioni e possibili ipotesi. Spesso i bordi dei disegni tradiscono anche la sua passione istintiva: «Piuttosto questa, di Pietro Perugino!». Ed è emozionante per noi vedere al lavoro l'intelligenza critica di un attribuzionista-dilettante (che pure conosceva Vasari, Winckelmann, Mabillon e Baldinucci) però in epoca tanto precoce. Aveva le sue idee discutibili, ma chiare: come Vasari trovava «secca» la maniera di Bellini, «manierato alquanto» Taddeo Zuccari, sia pure capace di opere «fatte con foco», né lo convincevano i fiamminghi: la cui «uguaglianza della mossa non può pienamente appagare il delicato genio degli intenditori». Del resto per quegli anni, comunque, era già di per sé abbastanza inconsueta questa predilezione di colle- zionare disegni, che Acqua non cercava soltanto rifiniti ed autonomi. Ma apprezzava anche e molto i «pensieri», gli schizzi, gli abbozzi. Probabilmente c'è anche una ragione, in questa scelta di collezionare grafica piuttosto che pittura: e la confessa a Luigi Crespi, artista canonico e mediatore di grande disinvoltura mercantile, nonostante l'osse figlio del sommo Giuseppe Maria Crespi che col nobile marchigiano fece lauti affari. Anche se questi spesso sa coraggiosamente rifiutare: «Troppo farei se la borsa corrispondesse e non fosse quella di un limitato figlio di famiglia. Ho determinato dunque per ora di non raccogliere che dissegni e qualche ritrattino, quando mi capiti a un prezzo meccanico». Crespi, in questo, è sapiente e tentatore: gli parla di acquisti favorevoli «da monarca», da «gabinetto reale», e «per poco prezzo». Ma Acqua non è sciocco: certi fogli così a buon mercato lo insospettiscono, non si tratterà per caso di un'incisione? Perfido, il nobile: «Ho troppo stima di un simile valentuomo per conservare un sì tenue monumento del di lui valore» e restituisce subito «in involtino» il dubbio ritratto del presunto papà Crespi (quante sono le copie?). Oppure: «Le confesso sinceramente che senza la di lei assertiva avrei creduto di offendere il di lei gran nome se glielo avessi attribuito». E il Crespi, piccato, di risposta: «E io dovere aver la taccia di averle mandata una stampa per un disegno? Ne arrossirei come un infame». Infatti, come suggeriva il grande catalogatore veneto Zanetti, ormai bisogna esaminare «con occhi di lince ciò che si compra»: e davvero Acqua aveva imparato la lezione. Ma insieme anche il mestiere del «critico», abituandosi ad apprezzare i pentimenti, le «macchie» e i «tocchi trascurati». Inventandosi un linguaggio per descrivere i propri pezzi ed elogiare di Cantarmi «i segni così esatti e pastosi che sembrano di carne», il «sapore» di altri, o la «mirabile sprezzatura». Nascono insomma con questo amateur alcune metafore critiche che avranno grande fortuna. Marco Vallora Chi era veramente Filippo Acqua nobile marchigiano parente di Leopardi ebraista e grecista? Conosceva Vasari e Winckelmann, apprezzava abbozzi schizzi e «pensieri» 1 dT: Due pezzi del lascito di Filippo Acqua: a fianco «Studio di teste e mani» di Gaetano Gandolfi (1734-1802), sotto «San Matteo e l'angelo sanguigno» di Lorenzo Farinelli (1629-1700). A centro pagina: «Uomo visto da tergo», di Guercino. forse un autoritratto, della collezione Sieri Pepoli

Luoghi citati: Bologna, Osimo, Renalo Roli, Spoleto