Quel silenzio spezzato nel paese di Totò Riina di Francesco La Licata

Quel silenzio spezzato nel paese di Tot© Riina Quel silenzio spezzato nel paese di Tot© Riina LE REGOLE DEL VIVERE MAFIOSO QCORLEONE UANT1 si sono trovati a battere le stradine scoscese di queste contrade, siciliani o «continentali» che fossero, non hanno potuto fare a meno di restare colpiti dalla completa assenza di rumori che avvolge il paese, oltre che - naturalmente - la campagna. Corleone silente: non c'è orario di punta e anche allora le macchine scivolano lentissime e mute. Non si odono schiamazzi ed è lontano e sconosciuto il vociare dei mercati palermitani. No, Corleone parla poco, bisbiglia. Sia che si ritrovi in piazza, all'ombra, a lenire l'afa estiva, o che se ne stia in casa per sfuggire al freddo pungente. Tutto è avvolto nell'ovatta che attutisce i rumori. Anche il pianto - a differenza di altri posti della Sicilia, dove il dolore è gridato oppure addirittura cantato come nel coro della tragedia greca - scende silenzioso, quasi represso. Anche la morte, da queste parti, preferirebbe arrivare in silenzio. Così è da sempre. A Corleone le faide tendono a rimanere sotto il vulcano. Finché è possibile, naturalmente. Perché la platealità non è amata. Il modello culturale, nel paese più famoso (contro la sua volontà) d'Italia, lo ha imposto la mafia, una mafia antica, crudele, violenta, assassina. E silenziosa. Finché può, naturalmente. Qui si è sparato sempre poco. Altri metodi hanno adottato i signori dell'onorata società. Sistemi consolidati, sicuri, ma estremamente discreti. I messaggi, tanto, girano lo stesso e «chi deve capire capisce». Tra la fine degli Anni 50 e il decennio successivo una faida sanguinosissima sconvolse Corleone e la mafia avviò una vera e propria «campagna» antisindacale per «ridurre alla ragione» i contadini illusi che dalla polverizzazione del latifondo sarebbe loro venuto qualche beneficio. Potevano sospettare, i poveretti, che presto avrebbero rimpianto gli odiati baroni scalzati da ex «sovrastanti» iscritti a Cosa nostra, avidi e sanguinari? La «campagna» fu terribile: morti a dozzine, ma pochi spari. Le vittime venivano prelevate in silenzio e inghiottite dal nulla. Passeranno anni prima di scoprire la loro «fossa comune»: una gola profondissima e irraggiungibile che rimarrà nella storia della mafia col nome di «cimitero di Rocca Busambra». La sua esistenza fu rivelata dal giovane capitano Dalla Chiesa, comandante della Compagnia dei carabinieri. Parte dei corpi, ormai pietrificati, poi sarebbe stata recuperata dal prof. Ideale Del Carpio, medico legale di Palermo. Questo non vuol dire che la mafia non abbia mai sparato. Certo, quando ci vuole... Luciano Liggio non poteva liberarsi di Michele Navarro - capo della cosca avversa attirandolo in un tranello. Il dott. Navarra non era certo un pivellino. Giustificato, quindi, dallo «slato di necessità» quel finimondo compiuto a colpi di mitra che disintegrò il medico mafioso. Già, lo «stato di necessità». A Corleone si spara solo quando non se ne può fare a meno. Per tradizione il paese di Liggio, di Riina, di Provenzano, di Bagarella, insomma dello stato maggiore di Cosa nostra, vanta il record della tranquillità. Generazioni di investigatori pigri (nelhi migliore delle ipotesi) hanno preteso di dimostrare l'inesistenza della malia esibendo !'«assenza di episodi delinquenziali» come furti, rapine ed anche omicidi. Le «lupare bianche», tanto, allora non facevano statistica. Così è andata per anni. L'ultimo omicidio, qui, è avvenuto cinque anni fi: una storia di campagna, sembra. Improvvisamente, però, tre cadaveri in un mese. Tre morti, parenti tra di loro: prima Giusto Giammona, poi - sabato sera - la sorella, Giovanna, e il marito Francesco Saporito. Omicidi di mafia, come spiega inequivocabilmente la geomutria dei killer che sparano con armi professionali, persino il kalashnikov di triste memoria, e salvano il bambino di due anni. Perché tanto rumore? La domanda rischia di diventare l'incubo degli investigatori. I Giammona, è vero, sono imparentati coi Leggio (ciucili che vivono tra Bologna e Modena) e con Giacomo Riina, il vecchio zio del «padrino)» don Totò. Ma sembra improbabile din i colpi arrivino da avversari dei corleonesi. Il linguaggio della carneficina sembra tutto interno alla mafia di qui. E' difficile da spiegare, ma è come se i morti siano stali gettati in faccia al paese, «puniti» per un gesto di insubordinazione. Quale? Chissà: potrebbero esser venuti meno a una regola, aver avuto coniarti con qualcuno «infami!» ma ancora sconosciuto, o semplicemente essersi dissociati con un «no» a qualche richiesta deH'«amata» famiglia. Francesco La Licata I boss non amano i gesti plateali si spara solo in stato di necessità E' un messaggio sinistro A sinistra le due vittime. Sopra la loro auto crivellata dai killer. Al centro Totò Riina. il boss dì Corleone

Luoghi citati: Bologna, Corleone, Italia, Modena, Palermo, Sicilia