Due generazioni sconfitte Borore, un solco tra padri e figli di Francesco Grignetti

Due generazioni sconfitte Due generazioni sconfitte Borore, un solco tra padri e figli FUNERALI E MISTERI BORORE (Nuoro) DAL NOSTRO INVIATO «Ho visto Ivo mentre scriveva una lettera, la sera che s'è ucciso. Era con noi al bar, in piedi davanti al bancone, mezzo nascosto dietro la cassa. Scriveva su un foglietto, ma non voleva che nessuno leggesse. Scriveva una frase e poi chiudeva il foglio. Chissà, magari avessi insistito con lui... Lo avremmo salvato. E non era la prima volta». Chi parla è Ramon, 19 anni, gli occhi cerchiati. Un amico di Ivo e di Stefano. Si vedevano tutte le sere al solito barcircolo, quattro tavolini, un bancone e una televisione, che è il rifugio dei ragazzi di Borore. Loro e nessun altro va al bar-circolo. Gli altri, gli adulti, vanno nei loro ritrovi. La bocciofila, innanzitutto. Due mondi diversi, non comunicanti, retti da culture e valori diversi. L'unico momento di incontro è in famiglia. E spesso sono scintille. Anche ieri mattina, al funerale di Ivo e Stefano, i due mondi di Borore erano lì che si guardavano e non si capivano. Su un lato della piazza gli anziani e gli adulti. Coppola in testa e sguardo scavato. Tipi da Barbagia, vestiti con l'abito buono. Sull'altro i ragazzi che si facevano coraggio a vicenda: molli con l'orecchino, tutti in jeans e giubbotto, qualcuno con i capelli rasati. Nella stessa piazza di Borore, a caldo, si erano incontrate le tre persone che più contano in paese: il sindaco, il prete e il carabiniere. Si sono parlati in tutta confidenza. E alla fine hanno ammesso che loro, questi giovani, proprio non li riescono a capire. Don Peppino l'ha anche detto nell'omelia funebre di ieri, davanti alle famiglie stravolte e a tutto il paese: «Che questo momento terribile sia occasione di riflessione per tutti. Dobbiamo capire i nostri giovani. Dobbiamo soprattutto aiutarli a comprendere le gioie della vita». Le gioie della vita. «Io non so proprio più che dire - spiega il sindaco, Valerio Tola -, pensi che qualche tempo fa vennero da me in delegazione, ragazzi e ragazze, giovanissimi. Volevano che il Comune si munisse di una sala di musica. Un posto dove suonare e ballare. Sapete, fanno il rap. Io, con tutta la buona volontà, non ho saputo che rispondere. Ho anche chiesto fondi alla Regione, ma mi hanno riso dietro. Ci voleva mezzo miliardo per comprare e ristrutturare un edificio. E' finila che ho chiuso tutti e due gli occhi e ho permesso che utilizzassero un capannone abbandonato nella zona industralc. Non si potrebbe. Ma insomma, per la sera di carnevale, abbiamo lasciato perdere». Ballare. Un problema che i cinquantenni nemmeno riescono a vedere. E che forse nelle famiglie dove è maturato il dramma era più inconcepibile che in altre. Il padre di Ivo Cabras, che ieri mostrava un volto impenetrabile, al figlio rimproverava di non essere ancora emigrato in Germania come aveva fatto lui alla sua età. Dimostrava un pugno di ferro anche il padre dell'altro suicida. Padri all'antica. Ma c'è un se- condo tratto in comune: una strana ritrosia, da parte di questi loro figli, nel socializzare con gli altri coetanei. Trascorrevano molto tempo tra loro. Andavano al bar-circolo. Ma non se li ricordano né in palestra, né al campo di calcio, né in teatro. Ed è sem¬ pre la stessa storia, anche nella vita degli altri. Uno è sopravvissuto. Diomede, diciannove anni. Ha provato a suicidarsi qualche mese fa. Si dice in giro che Diomede non sia del tutto estraneo ai fatti dell'altra sera. Qualcuno e sicuro che sappia tutto. Però lui è troppo sconvolto. E il padre Antonio taglia corto: «Mio figlio dormiva a casa, la sera che gli altri si sono ammazzati». Un ennesimo padre autoritario. Diomede si era beccato una multa dal sindaco, l'estate scorsa, per una bravata: insieme con i compagni di leva, prima di andare alla visita miliare, aveva imbrattato di vernice bianca mezza Borore. I carabinieri li avevano identificati, il Comune gli aveva fatto una multa, il padre l'aveva gonfiato di botte. Ivo, Stefano, Diomede. Il quarto inseparabile era Massimo, che s'è suicidato nella stessa identica maniera un anno fa. E poi ci sono gli altri: Eugenio, Gianni, Adriano, Giuseppe, Ramon, William, Bachisio. Tutti intorno ai vent'anni. Scuotono la testa e non capiscono. Della rottura con i loro padri non vogliono parlare. E' nelle cose. Scrollano le spalle e via. Non vogliono parlare di loro. Adesso è il momento di parlare di quelli che non ci sono più. Bachisio, un ragazzone grande e grosso, racconta di quando lui salvò Ivo, quindici giorni fa: «La famiglia aveva capito che qualcosa non andava. Mancavano pochi giorni all'anniversario della morte di Massimo. Ci chiamarono. Noi andammo in giro a cercarlo. L'ho trovato io, qui vicino. Ma che sei pazzo?, gli ho detto. Me lo sono preso sotto braccio e l'ho portato al circolo. Non parlava. Non voleva dare spiegazioni». Alla festa-rave di carnevale erano andati insieme. Il disc-jockey aveva voluto un milione. Tutti i ragazzi del paese si erano autotassati, un tot all'ingresso. E avevano fatto l'alba. Tutto, in apparenza, sembrava andare bene. Gianni non capisce e nemmeno prova a capire: «Erano ragazzi normali. Ci vedevamo tutte le sere. Mi hanno detto che in tasca Ivo portava la fotografia della sua ragazza. Oddio, dire ragazza è un po' troppo. Lei aveva tredici anni, lui venti. Non erano mai andati oltre all'amicizia. A lui piaceva l'idea di fidanzarsi, a lei no. Non penso che ci si ammazza per questo». I carabinieri confermano: Ivo, di questa ragazzina, ha fatto cenno anche nella lettera ai genitori. Ma tutti si rendono conto che non si può parlare di delusione sentimentale. Resta la domanda di fondo, come spiegarsi questi suicidi a catena? «E' l'emulazione», dicono tutti. Lo dice il sindaco, lo dice il prete, lo dicono i carabinieri. L'emulazione, però, spiega perché i ragazzi scelgono il treno anziché un'altra maniera per uccidersi. A qualcuno sarebbe piaciuto dare tutta la colpa al santone del paese, Lussorio. Ha fama di guaritore, si dice che faccia sedute spiritiche. Chi meglio di lui, come capro espiatorio? «Ma guardi dice al telefono - che io non sono affatto un guaritore. Io non faccio niente. E' Dio che guarisce. Io prego solo. Le voci sul mio conto? Non mi meravigliano. C'è gente, in paese, che parla malissimo di me. Lo so bene. E ora mi scusi». C'è da crederci, allo spiritismo? «Ma non prendiamoci in giro» dice uno dei suoi amici. Ramon non è del tutto convinto: «Loro avevano dei demoni in testa, questo è sicuro». E così dicendo il gruppetto rientra nel bar-circolo. La loro «tana» esclusiva. Francesco Grignetti Il genitore accusava Ivo perché non era emigrato come lui alla sua età

Persone citate: Ivo Cabras, Valerio Tola

Luoghi citati: Borore, Germania, Nuoro