Nel Messico dei campesinos ultimo incubo di Wall Street

Ai DL Gli zapatisti contro l'invasione del dollaro: una guerriglia sperduta che arriva fino ai nostri Bot Nel Messico dei campesinos ultimo incubo ili Wall Street VIAGGIO NEL VULCANO DELLA CRISI Ai CITTA' DEL MESSICO Li/incrocio dell'Avenida Escobedo con l'Avcnida Mazaryk, nel centro dello shopping più ricco dove persino l'immancabile gas di scarico che appesta tutta la città sembra odorare di scappamenti di lusso, un uomo alto quattro spanne sta accovacciato da mattina a sera sullo spartitraffico di cemento. Non ò un nano, ò un uomo senza gambe, una sorta di «busto vivente» che da lontano sembra emergere come un bagnante da un'improbabile piscina di cemento. Quando il traffico si blocca nell'ingorgo, lui va al lavoro. Facendo leva sulle braccia, il «busto» compie un volteggio acrobatico e atterra con infallibile precisione sul cofano dell'auto prescelta, avendo cura di scegliere macchine robuste, per evitare collassi di cofani troppo sottili. Ricade sempre diritto e in equilibrio sulla vita. Da una tasca della sua «guayabera», estrac un flaconcino di plastica e uno straccio. Spruzza un liquido bianco sul parabrezza, lo lava dondolandosi sulla vita por raggiungere gli angoli più lontani e prima che la macchina riparta, compie il volteggio inverso, ricadendo sullo spartitraffico, il viso sorridente all'altezza del finestrino, per raccogliere il pagamento. La gente del quartiere lo chiama Moctezuma, per la sua inconfondibile faccia da azteco. Sono rimasto a guardarlo a lungo, prima che il divertimento cedesse alla pena. Gli ho allungato una moneta da 5 pesos, un dollaro americano. «Ma usted non ha macchina?». «No». «E allora perche riti pagate, senior, solo perché sono un indio e voi un bianco?». Ha ragione Moctezuma. Ci vuol altro che un dollaro per pareggiare il bilancio della storia. Ed è precisamente su questo sentiero della vergogna storica del «conquistador bianco» che da 14 mesi ormai, politicanti, giornalisti, cameramen, intellettuali, celebri sfaccendati del jet-set internazionale come i Kennedy e Bianca Jagger, si incamminano per andare a «ballare coi lupi» e a vedere l'ultimo mistero tragico di questo Messico: la «indianada», la rivolta degli indio Maya che il primo gennaio del 1994 scesero dai monti, uscirono dalle foreste, per conquistare l'altopiano del Chiapas e la sua capitale, San Cristobal de las Casas e che, dall'inizio di febbraio, sono stati ricacciati nella giungla e braccati dalla controffensiva dell'esercito. Del Messico e delle sue vicende, normalmente importa poco. In una storia che ricorda quella russa, intessuta com'è di sovrumana sopportazione e di brevi, furibonde esplosioni di collera, rivolte come questa dell'«Ezln», dell'esercito di liberazione zapatista e del suo fascinoso «Subcomandante Marcos», non valgono di solito la vita di un soldato federale o il costo del biglietto aereo per un inviato speciale. Se invece siamo qui, sul sentiero della «Selva» come tutti chiamano ormai la foresta di Lacandon, nel Chiapas, dove gli zapatistas si sono arroccati per sfuggire all'esercito federale, se stiamo anche noi «ballando coi Maya» è perché, per la prima volta da quando l'indio Emiliano Zapata scatenò la sua inutile, gloriosa rivolta, al rimorso «bianco» si è unita la paura. Al pietismo terzomondista si è agganciato il sospetto che queste misteriose, romantiche figure di combattenti con il passamontagna usciti dalla «selva incantata» per sfidare il governo Messicano, l'America di Clinton, Wall Street, la Federai Reserve e la Bundesbank, marcino a passi gommati - le galosce di gomma sono il segno distintivo degli zapatistas - sulle Borse Valori e sugli Uffici Cambi, sui buoni del Tesoro e sui Cct di tutto il mondo sviluppato. Italia compresa. Per questo, per cercare questo filo invisibile che lega una piccola insurrezione india a noi, ho cominciato il viaggio verso la «Foresta Incantata» dei Maya dalla capitale, da quella Città del Messico che sembrerebbe in tutt'altre grane impaniata. La Città del nuovo Presidente Ernesto Zedillo Ponce de Leon (mai un cognome solo per questi eredi della «Conquista» spagnolesca) e lontana mille chilometri in linea di volo, e mille anni in linea di storia, dalla Selva, che sta all'estremo confine Sud con il Guatemala e alla periferia di qualsiasi sviluppo. I problemi di Zedillo, ereditati dal predecessore e «padrino» Carlos Salinas de Gortari, sono i soliti del Messico, la moneta, la Borsa, lo sfascio dell'economia, il commercio, il debito, non la ennesima sollevazione indigena. A occhio nudo, la capitale di Zedillo non mi sembra infatti diversa da quella che avevo visto sotto Salinas. La puzza che ritrovo è quella di sempre, una sinfonia di gas di scarico, fogno lievemente intasate, sudore, spazzatura e tortillas di mais, che il secco dell'inverno attenua un poco, ma non cancella. Qualche grattacielo nuovo, di gusto molto «gringo», nordamericano, come ringhiano i messicani, segnala qua e là il passaggio del reganismo di Salinas. Niente collega in apparenza la città eretta sul sangue di Moctezuma (quello azteco, non quello che lava i parabrezza) alla «indianada». Le strade sono sempre quelle, brulicanti di un'umanità giovanissima, e felicemente sensuale come segnala l'abbondanza di microgonne e di camicie aperte su petti virili, presagi di eccessiva natalità futura. I traffici sono quelli paradossali di tutte le metropoli appollaiate in precario equilibrio sul trespolo fra consti- mismo e sottosviluppo, un misto di vetrine con Rolex d'oro massiccio e brillantini, stile tardo Kuwait, e davanti bancarelle che offrono «Cambio de Pilas», per i proletari dello Swalch. Ad ogni angolo, vigilantes imbracciano pistoloni e fuciloni da commedia musicale, dando a tutta la città un aspetto da stato d'assedio, in attesa dell'imminente attacco. Ma i pochi dimostranti con il passamontagna in testa, l'altro segno distintivo degli zapatisti, apparsi nelle vie della capitale sembrano più gioco che minaccia, e non preoccupano certo il capo di stato maggiore, generale Arrida. Gli amici che non vedevo da tempo, i colleghi dei giornali messicani meno compromessi con il governo come La Jornada o il settimanale Pìoceso, lamentano il peggioramento di tutto, come fanno sempre gli amici che non vedi da tempo. Per scandalizzarmi, uno di loro mi porta a vedere il nuovo «mercato della carne», all'angolo fra le Avenida de los Insurgentes e del Nuevo Leon, dove la carne in vendita e umana, non bovina. Su un marciapiedi, battono «las putas», le prostitute femmine, sul marciapedi opposto i «mariconcs», i prostituti maschi e sarebbe una lodevole divisione del lavoro se questo non creasse un orribile problema di traffico. Per ragioni misteriose, i clienti dei mariconcs e quelli delle putas sembrano viaggiare sempre sulla corsia opposta al marciapiede dei loro desideri e questo genera un selvaggio carosello di inversioni a «U», in un coro di clacson e di reciproci insulti automobilistico-sessuali. Hai visto dove siamo arrivati? Ho visto anche di peggio. A casa mia, negli Usa, per molto meno ci si spara. No, a occhio nudo, niente sembra minacciato dalla insurrezione indigena. Ma a occhio nudo, in Messico non si vede mai niente. Le verità sono sempre nascoste dietro riti e maschere, politiche, religiose, culturali. La Virgen de Guadalupe, sovrana della religiosità messicana, è certo la Madonna dei cattolici, ma è anche una dea azteca, secondo la fede di chi la adora. Chi sta davvero pregando, quel camposino che si trascina in ginocchio davanti alla cattedrale avvolto nel suo «huipl», la coperta indiana, Maria di Nazareth o la Regina dei Toltechi? E come posso credere agli economisti con titoli di studio americani che vado a incontrare nel nuovo, modernissimo palazzo della «Bolsa», la Borsa, sul Pasco de la Reforma, in un Paese che sa passare, in una notte, dal miracolo al disastro, senza vie di mezzo? i Alla fine del 1993, appena 14 mesi or sono, il Messico era un miracolo economico che aveva attirato HO miliardi di dollari, quasi l'equivalente dell'intero disavanzo pubblico italiano, in investimenti dall'estero. Oggi e un lebbroso, salvato in extremis dalla interessata carità di Clinton, ma ormai abbandonato da 20 miliardi di quegli 80, clic sono tornati a casa e da altri 20, volatilizzati nel crollo del peso (da 3 a 5,8 per un dollaro in soli tre mesi, altro che crisi della lira italiana) e dallo squagliamento della Bolsa, la Borsa. Ancora nel 1993, Ross Perot, il cagnotto ringhiamo del neo isolazionismo americano, profetizzava un «gigantesco risucchio» di posti di lavoro americani a Sud della frontiera, verso il Messico. Oggi, mentre scrivo queste righe, la Conlindustria messicana annuncia il licenziamento di 250 mila operai del settore automobilistico, e si prevede che almeno 500 mila giovani messicani si aggiungeranno, solo nel 1995, all'armata dei clandestini che già attraversa¬ no la frontiera degli Stati Uniti. L'inflazione corre al ritmo del 40% l'anno e viene misurata ogni quindici giorni, anziché ogni mese, polare meno impressione. I tassi interbancari sono arrivati al 74%. Quelli al consumo, rate sulle auto, carte di credito, sono al 90%. Erano certo false le cifre del miracolo. Sono falso anche queste del crack? Non sono certo false per le belle signore di Las Lomas, il quartiere più elegante della città, che dopo anni di acquisti a credito ora si trovano con i conti da pagare al 90'ìii di interessi, vera usura. Quasi ogni giorno vanno davanti alla residenza presidenziale di Los Pinos, a manifestare la loro indignazione. La sera, un vago aroma di Chanci ancora aleggia nell'aria stagnante. Anche questo è normale. Città del Messico è una città di odori. Ogni quartiere ha il suo, ogni gruppo sociale ha la sua firma odorifera. Davanti alla sede centrale del Banamex, la Banca del Mexico, da qualche giorno manifestano campesinos indebitati. L'odore di stallatico è inconfondibile. Ma parliamo di capre, non di guerra. No, il filo che lega la foresta della rivolta alla capitale e al mondo, non si vede, non si tocca, non si odora. E' invisibile e impercettibile come il segnale radio, come il messaggio elettronico che un'altra foresta, «una selva bianca», come l'ha chiamata lo scrittore Carlos Fuentes, captò nel Capodanno dell'attacco zapatista: la foresta bianca delle antenne paraboliche eretta sui tetti della Borsa, delle Banche, delle case di tutti i messicani che contano. Furono loro a ricevere a capire per prime il vero, terrificante significato dell'insurrezione. Non più il solito, universale grido di «Tierra o muert.e» destinato a finire davanti a un plotone di esecuzione, ma la ribellione precisa, cosciente, inaudita di una banda di indios contro un trattato internazionale, contro quell'accordo del Nafta, il Meo americano, che avrebbe aperto le porte del mercato messicano alle importazioni agricole Usa. E distrutto cosi il valore di quel granoturco che i Maya, il «popolo del M;n's» producono da millenni sui fianchi delle Montagne Blu, nel Chiapas. Il segnale che corse fra la selva verde e quella bianca era angoscioso per i «coletos», per i signori con il colletto. Una popolazione tra le più arretrate della Terra, aveva capito per forza la lezione della globalità dell'economia moderna, quella che a volte persino gli specialisti stentano a capire: che il destino del nostro lavoro, del nostro salario, dei nostri figli, anche nelle foreste del Messico profondo, oggi ò deciso a migliaia e migliaia di chilometri dal luogo di lavoro, nella competizione internazionale. E si era impadronita dei mezzi per «parlare al inondo»: la telecamera, il fax, e soprattutto il computer, che gli zapatistas usano per rilanciare nell'universo dell'Internet, la rete mondiale e incontrollabile di comunicazioni via personal computer, i messaggi e gli appelli politici, sfuggendo a ogni censura governativa. Con il loro gesto incrinarono il mito del miracolo messicano, fecero tremare la Bolsa e poi il Peso. Washington drizzò le orecchie: dov'era la vantata stabilità messicana, fondamento del Mec nordamericano? Wall Street prese un bagno: c'erano troppi capitali gringos investiti in Messico per stare tranquilli. 11 dollaro s'indebolì. Il Marco riprese la sua marcia teutonica. Gli indios più arretrati del Centro America, avevano scoperto un'altra verità pericolosa, per i «coletos» bianchi: che il gioco dell'economia globale e integrata può essere giocato in due, Cosi come un latto firmalo a Washington poteva distruggere il loro Campetto di mais, così loro potevano far tremare Wall Street uscendo dal bosco con le galosce di gomma. Vittorio Zucconi (Continua) Il miracolo economico si è disciolto come un miraggio Il Peso è in picchiata le fabbriche licenziano La rivolta del Chiapas ha saputo lanciare le sue parole d'ordine su Internet colpendo diritta Borse e Mercati Con i tassi al 90% anche le signore bene vanno a protestare davanti al palazzo del Presidente gloriosa rivolta, al rimorso «bianco» si è unita la paura. Al pietismo terzomondista si è agganciato il sospetto che queste misteriose, romantiche figure di combattenti con il passamontagna usciti dalla «selva incantata» per sfidare il governo Messicano, l'America di Clinton, Wall Street, la Federai Reserve e la Bundesbank, marcino a Guerriglieri del Fronte nazionale di liberazione zapatista vanno a protestare davanti al palazzo del Presidente agli economisti con titoli di studio americani che vado a incontrare nel nuovo, modernissimo palazzo della «Bolsa», la Borsa, sul Pasco de la Reforma, in un Paese che sa passare, in una notte, dal miracolo vescovo di San Cristobal do Las Casas, al grido di «Fuori Ruiz». Sul sagrato della cattedrale domenica pomeriggio, all'ora tradizionale della Messa e dell'omelia del vescovo, i sostenitori del vescovo erano stati attaccati, con un bilancio di 15 feriti. Da San Cristobal e partita lunedì una marcia, in difesa del vescovo, che compirà mille chilometri e giungerà a Città del Messico l'8 marzo. Intanto, il vice-comandante Marcos, leader dell'Esercito zapatista di liberazione lazionale (Ezln), dopo i recenti arresti, ha dichiarato che «nessuna delle persone arrestate o per le quali è stato emesso ordine di cattura appartiene ai vertici dcll'Ezln». Marcos accusa l'esercito federale di tentare di schiacciare la ribellione degli indios attaccando i civili, m [Agi-Ansa] generale Zapata è diventato l'emblema della rivolta dei campesinos nel Chiapas quilli. 11 dollaro sindebolì. Il Marco riprese la sua marcia teutonica. Gli indios più arretrati del Centro America, avevano scoperto un'altra verità pericolosa, per i «coletos» bianchi: che il gioco dell'economia globale e integrata può essere giocato in due, Cosi come un latto firmalo a Washington poteva distruggere il loro Campetto di mais, così loro potevano far tremare Wall Street uscendo dal bosco con le galosce di gomma. Vittorio Zucconi (Continua) Guerriglieri del Fronte nazionale di liberazione zapatista A sinistra il comandante Marcos, il leader dei ribelli zapatisti del Chiapas A destra, donne indie in una strada di Città del Messico Il Paese che 14 mesi fa era in pieno miracolo economico è ora sprofondato in una crisi senza precedenti