Psicoanalisti, i nuovi politologi I voyeurs della politica
Psicoanalisti, i nuovi politologi Psicoanalisti, i nuovi politologi Ivoyeurs della politica ON è solo a partire da oggi che il concerto politico in Francia è una manfrina. A battere il tempo, ci sono quei «direttori d'orchestra» chiamati «politologi», esperti in scienze politiche e contemporaneamente cronisti politici. Onnipresenti, puri prodotti dei media, reclamano inutilmente un «dialogo di idee». Alcuni rappresentanti della casta degli psicoanalisti stanno ora raddoppiando questa monotona canzone di gesta, che parla solo di personaggi e non di concreti progetti politici. Essi legittimano il loro intervento esibendo lettere di nobiltà ereditate dal nonnino Sigmund Freud, che ai suoi bei tempi aveva prodotto testi teorici sulla politica, prima di scrivere una biografia del presidente Wilson, nella quale dimostrava che il padre della pace del 1919 era scmipazzo, cosa che non ha cambiato la Storia né lenito le sue conseguenze. In Francia, alcuni psicoanalisti freudiani si dedicano da una ventina d'anni a esercizi del genere, interrogandogli uomini politici attraverso i loro testi, i loro discorsi e le loro azioni, per trovare una risposta alla domanda: «Che cosa li fa correre?». Quasi ogni giorno dell'attuale campagna elettorale vede la comparsa di un articolo o di una cronaca che «disossa» le motivazioni psichiche delle parole e delle azioni di un candidato, nell'illusione di mettere a nudo il suo inconscio e trovare una diagnosi della patologia che si manifesta nel suo discorso politico. Spesso la conclusione è molto brillante, suggellata dalla constatazione della sua «evidenza». Ma è giustificata!' In questo filone si colloca il saggio di Jean-Pierre Winter Iws hommes politiqties sur le clivan («Gli uomini politici sul divano», edizioni Calmann-Lévy). L'autore ha già dimostrato il suo acume in alcuni commenti sulla Giustizia. Considerando che lo psicoanalista ha «il privilegio, non sempre invidiabile» di saper leggere quello che, tra le pieghe dell'intenzion:' manifesta, tradisce il discorso inconscio del candidato alla Presidenza della Repubblica, l'autore giustifica il suo proposito di indurre l'elettore a diventare lettore di ciò che egli scrive. L'ipotesi di lavoro appare nella conclusione: dal momento che il candidato chiede al suffragio universale il diritto a esercitare il ruolo di capo, riconosce a questo suffragio universale la funzione di Padre, fonte dell'autorità. In quanto componente assai concreta di questa entità astratta, il cittadino ha il diritto di essere informato sulle diverse modalità di «rapporto con il Padre» che governano, per ogni candidato, il suo progetto politico e il suo rapporto con il desiderio e il piacere. Quei «modelli» di Capi di Stato Senza cadere nel linguaggio analitico, ma anche senza semplificare troppo, J.-P. Winter, appoggiandosi sulle parole stesse dei candidati, finisce per descrivere - forse a sua stessa insaputa - un modello di Capo di Stato che accomuna quegli stessi che lui tenderebbe invece a contrapporre. Balladur, come Mitterrand, non confonde l'uomo con la sua funzione. Entrambi vedono nell'Eliseo, al di là della propria apparizionemaestosa, un luogo vuoto, una carica priva di modello, la cui conquista è puramente illusoria «tehhene essi accettino di di¬ fenderla. Giscard, in preda alle vertigini, si precipitava a capofitto in questa assenza. Rocard, Delors e ancor più Chirac ne avevano paura, dal momento che non credevano in ciò che inscenavano. Gerard Miller, psicoanalista pure lui, ben introdotto nella Parigi radical-chic, aggiunge una nuova serie di riferimenti con il suo La Fraine cies bérissons («La Francia dei ricci», edizioni Seuil). Questa raccolta di brevi cronache intorno alla campagna presidenziale - si sarebbe tentati di chiamarle «novelle» , di ritratti al bulino, ricorda al lettore che il suo fascino per il visibile è «oscurantista». «Non sono un giudice - dice Gerard Miller -. Non è il mio mestiere dire dove comincia e dove finisce quella che si chiama la responsabilità degli uomini. Quello che m'importa è quanto ciascuno ha fatto di ciò che gli deriva dalla sua infanzia, dalla sua vita, quanto ciascuno ha fatto di ciò che l'altro gli ha imposto». Il candidato e il suo inconscio 1 due autori, essendo buoni lettori di Lacan, al quale si riferiscono con diversa fedeltà, mettono in luce la certezza che chiunque, il candidato come il suo elettore, è responsabile del suo inconscio. E poi? Questi due saggi scintillanti, uno più dotto, l'altro più pirotecnico, ai quali si dovrebbe aggiungere anche quello di Daniel Sibony, pongono alcune questioni di fondo. Non sono in fondo figli dell'illusione della psicoanalisi detta «applicata»? Le sue griglie interpretative, le sue costruzioni, rinunciano allo strumento principale della psicoanalisi, quelle parole che sgorgano «sul divano» nel particolare rapporto detto «trasfert» - tra chi ascolta e chi parla, nelle associazioni relativamente libere (in mancanza di meglio) suggerite dall'inconscio. Questa «psicoanalisi applicata» è affascinante e Freud stesso ha ceduto al suo richiamo. Essa però risponde soltanto a quel banale desiderio compulsivo di una spiegazione a qualunque costo, di un'autopsia delle origini, il che non è una garanzia di giustezza. L'obiezione è banale. Un'altra è più attuale: lo psicoanalista che procede in questo modo abusa della sua posizione di potere. Esponendosi in un campo che non è il suo, cade nella trappola di proporsi come «il soggetto che s'immagina sappia», denunciato da Lacan. Quant'è pertinente la decrittazione che si presenta come analitica in una campagna elettorale decisiva come quella che viene proposta ai francesi? Essa risponde soltanto a un'antica moda intellettuale, germogliata da un voyeurismo che non dice il suo nome. Qual è l'effetto del giudizio su che cosa «fa correre» i candidati? Il lettore passivo ricorda soltanto una demistificazione, si fabbrica una valutazione moralizzante, in funzione di un Bene e un Male immaginari, che svelano il giudizio propriamente politico, o lo scoraggiano. Eppure è proprio questo giudizio a essere chiamato in causa. Ma come stabilirlo, quando i candidati non sono latori di alcun progetto, di alcuna utopia, di alcuna volontà in cui l'elettore possa riconoscersi, identificarsi, senza preoccuparsi della qualità dei rapporti che questo o quel candidato ha avuto con suo padre? Jacques Nobécourt
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