BEARZOT Sport, duelli d'Italia

BEARZOT Coppi o Bartali: storia di un Paese che si divide sempre sui suoi campioni BEARZOT Sport, duelli d'Italia ]MILANO N viaggio con Enzo Bearzot e il suo calumet. Cinquantanni di sport, e di costume sportivo. Un affresco. Friulano di scorza dura, studi classici, 67 anni, il Grande Solitario ci guida dentro a «questo mondo alla l'ine del mondo» che è l'agonismo. Com'era e com'è. Campione mondiale nel 1982, quando guidava la nazionale di calcio, e adesso libero cittadino, voce fuori del coro. Colui che fa più strada, diceva CromweO, è spesso colui che non sa dove va. Cominciamo dalla base. Cominciamo, cioè, dallo sport nella scuola, un argomento che ha solcato questo mezzo secolo provocando seminari e scomuniche. Enzo Bearzot sorride: «E' un campo minato. Parlare bene di un certo periodo - o meglio, di una cosa fatta bene sotto un certo regime - non è fine, può turbare le coscienze. Pane al pane: ai tempi del fascismo, lo sport scolastico sì che era una cosa seria, altro che le parodie odierne. Io, ragazzino, ignoravo perché me lo somministrassero in dosi così massicce: l'avrei capito dopo. Atletica, soprattutto. I ludi juveniles, per esempio. E poi, a livello università rio, i littoriali. Mentalità polisportiva, filosofia da college americano. Oggi non è così. Oggi è tutto un cicaleccio». La libere 'one, e subito un simbolo. Il Grande Torino. Per il calcio, per tutti, per tutto. Ma andiamo con ordine. «Nel '48, a Londra, le prime Olimpiadi del dopoguerra. L'oro della pallanuoto, avevo 21 anni, mi emozionò molto. Cesare Rubini: la sua carriera è un inno all'eclettismo: campione olimpico di pallanuoto a Londra, poi formidabile cestista. Lo sport, allora, ti dava da pensare, più che da vivere. Ti sentivi professionista dentro e dilettante fuori. Ricostruivi, costruendoti. Guadagnavi poco, ma non era ancora quello, per fortuna, il padre di tutti i parametri. «Con il Grande Torino la tragedia entra ufficialmente nel nostro mondo. Quattro maggio 1949, Superga, la fine di una squadra e l'inizio di un mito. Fu uno schianto che ci unì. Valentino Mazzola, Loik, Maroso, Bacigalupo: il fascino e la diversità del Toro sgorgano da lì, da quel senso tragico che altre morti e altri pianti (Meroni, Ferrini) hanno offerto all'immaginario popolare, glielo dice uno che quella maglia l'ha indossata e vissuta e patita». Non solo calcio. Gli anni di Fausto Coppi e Gino Bartali. L'Italia divisa, un tema caro a Bearzot: «Eravamo, e sempre saremo un popolo fondamentalmente "contro". Più che di un campione nel quale riconoscerci, abbiamo bisogno di un "nemico" da demolire. Si parla tanto di maggioritario, oggi in poli- tica, ma nello sport c'è sempre stato, due Poli, due leader, o di qua o di là, da Coppi-Bartali a Moser-Saronni a Trapattoni-Sacchi». Il racconto s'inerpica sui tornanti degli Anni Sessanta, gli anni del boom. Anche nello sport. Le Olimpiadi di Roma. Il settebello della pallanuoto. I duecento metri di Livio Berruti. I pugni di Nino Benvenuti. La tv in bianco e nero. I primi trofei continentali di Milan e Inter. L'Italia ha quattro quotidiani sportivi, record del mondo: La Gazzetta dello Sport a Milano, Tuttosport a Torino, Stadio a Bologna, il Corriere dello Sport a Roma. Oggi, dopo che Stadio è stato assorbito dal Corriere dello Sport, ne sono rimasti tre. «Penso che il giornalismo sportivo sia cambiato, addirittura, più dello sport stesso, spiega Bearzot. Nell'atletica, dopo Berruti è nato Mennea, nello sci c'è Tomba là dove c'erano Thoeni e Gros, ma nella letteratura sportiva dove sono gli eredi di Arpino, Brera e Roghi? Il vostro mestiere non è più quello. La tv l'ha ucciso. E se non proprio ucciso, piallato. Ho nostalgia degli scrittori e degli inviati dei miei tempi. Nel raccontare il gesto atletico, al protagonista o ai lettori lasciavano in dote sempre qualcosa. Non assicurando titoli e, dunque, tiratura, la parte didattica è stata annientata. Ci si ciba di processi e di appelli, di moviole adulterate e di sermoni strillati. Un bombardamento selvaggio». L'Italia e gli stranieri. La storia ci inchioda. Inguaribili esterofili. Noi, più di altri. Bearzot non si meraviglia: «E' nella nostra indole. Non facciamo mai la prima mossa. Siamo un popolo che nella migliore delle ipotesi è stato aggredito, e nella peggiore si è dato. In tema di stranieri è cambiato poco, dalla liberazione a oggi. Per fortuna, spes¬ so abbiamo buon naso. Platini, Maradona, Zico: non mercenari, ma maestri. E che maestri. La pallavolo deve tutto a un tecnico argentino, Velasco; e la pallanuoto a un serbo-croato, Rudic. Nel calcio, la scuola così detta italiana è la sintesi del fior fiore di altre scuole. L'italiano non era così geometrico come i danubiani, né così potente come gli inglesi, e neppure così "allegro" come i brasiliani. Ha preso un po' da tutti. Colori, malizie, fragranze, sapori. E li ha mescolati. Come fa Missoni con i suoi maglioni». C'è un anno in cui la cronaca di Bearzot confluisce nel fiume della storia, il 1982. La sua nazionale si laurea campione del Mondo, a Madrid. E' un risultato che sradica ogni genere di equilibrio. Gazzetta dello Sport e Coniere dello Sport toccano tirature milionarie. Dalla notte dell' 11 luglio, il rapporto calcio-altri sport esce stravolto. «L'urlo di Tardelli. La serietà di Zoff. I guizzi di Rossi. Indimentica- bili. La calcistizzazione del Paese raggiunge picchi grotteschi. Il fenomeno tira, ci vorrebbero dirigenti all'altezza». Una parola. Merce rara, in Italia. E' un problema di fondo, di cultura specifica. Sportiva. «Mi guardo intorno, dice Bearzot, e vedo un allarmante deserto. Il guaio sono gli arrivisti. I politici. Peggio ancora, i politici arrivisti, la genìa più viscida». Lo sport come mezzo, e non come fine. «Penso con terrore, spiega Bearzot, alla nuova figura del presidente professionista. Trovo detestabile cambiare squadra e bandiera come un giocatore qualunque. Ferruccio Novo era il Torino e basta. Gli Agnelli sono la Juve. I Moratti, l'Inter. I Borghi furono il calcio e il basket di Varese. Borsano no, Borsano il calcio lo ha scalato e usato. Calieri governa il Toro dopo aver pilotato la Lazio. Bisogna adeguarsi, d'accordo, ma io fatico a orientarmi, l'autonomia dello sport in pericolo, un continuo e perverso assalto alla diligenza. Gli sponsor, poi». Già, gli sponsor. Croce e delizia, Bearzot parla in chiave personale, lui, uno dei primi sponsorizzati della storia. Campionato 1958'59, il Torino diventa Talmone, «ci giocavo anch'io, finimmo in serie B, una stagione tragica. I tifosi ebbero una crisi di rigetto, considerarono quella T sulle maglie come uno sfregio». Adesso, invece, comanda proprio lo sponsor. «Dà i soldi, condiziona, invade spazi non suoi. Pensi lei che, ai mondiali dell'82, ci accusarono di aver "comprato" il Camerun. E sa perché? Perché, alla vigilia della partita Italia-Camerun, decisiva per l'accesso alla seconda fase, dei non meglio precisati sponsor, così mi risulta, avevano avvicinato gli africani offrendo loro un "ritorno" finanziario in cambio dell'uso delle loro mercanzie, scarpe, tute, casarche. Tirarono in ballo me e la Federazione, seminarono tanfo e dubbi. Miserie». E la violenza? «C'era anche ai miei tempi, ma era diversa, commenta Bearzot, meno truce. Se oggi deflagra, è perché anche quello del tifoso è diventato un mestiere. Le società hanno più colpe della società. Si sono prestate al ricatto e alle deviazioni, favorendole. Quando giocavo, o allenavo, il tifoso fa¬ ceva il tifoso. Ora, invece, la feccia opera in combutta con il club: il famigerato fattore campo, altro non è che il distintivo di questa perversa commistione». E lo spirito di bandiera? In cinquantanni è cambiato poco. Per Bearzot, «l'Italia è la culla dei comuni e delle leghe. Nazionale non significa nazione. Soprattutto nel calcio. Se vinci, tutti si accodano, ma per ricevere pomodori in faccia, basta arrivare secondi: l'Italia del '70, per esempio. Da noi, ti fischiano addirittura l'inno. Il tuo. Il nostro. Un rito incivile. Lo sport serve, e come. Il calcio servì al fascismo, che si annesse i due titoli mondiali del '34 e del '38. Il ciclismo, nella persona di Bartali vittorioso al Tour, aiutò De Gasperi a decongestionare l'ordine pubblico scosso, nel luglio del '48, dall'attentato a Togliatti. In tribuna a Madrid, la sera di Italia-Germania, c'era Pettini». Sino al ciclone Berlusconi. «Il Milan gli ha garantito una formidabile base di lancio. Berlusconi è l'ultimo, grande simbolo. Nello sfidare l'economista Spaventa, "schierò" anche, e soprattutto, scudetti e Coppe. L'argenteria di famiglia. Un caso unico. Televisioni, politica, sport. Un miscuglio diabolico. Di sicuro, ha fatto il bene del Milan. Ma dello sport in generale, temo di no». Arrivati in fondo al viaggio, si può trarre una morale? «Certo. Il modello italiano non tramonta mai. Siamo dei creativi. Prenda la Ferrari: meno vince, più ce la invidiano». Basta non illudersi. «C'è sempre meno spazio per i missionari. L'agonismo, oggi, è un miliardificio. Noi italiani abbiamo un rapporto con le regole del gioco molto, molto, singolare». Un classico: fra il 1959 e il 1961, il presidente della Juventus, Umberto Agnelli, era anche presidente della Federazione. Ma non si parlava ancora di anti-trust. «Saper perdere è un'ipotesi di lavoro per tutti tranne che per noi. Gli stranieri ci guardano con sospetto. Lo scandalo delle scommesse, Anni Ottanta, li stomacò, prima di incuriosirli. Non dico che si stesse meglio quando si stava peggio. Però lo sport conta sempre meno come fatto e sempre più come impatto. Comanda il telecomando. La differenza fra noi e gli inglesi non la fanno gli hooligans, la fanno le tribune: da loro, scuole di lealtà; da noi, palestre di facinorosi in doppiopetto. Sono stati i palchi dei vip ad ammorbare le curve, e non viceversa. Forse, per andare avanti, bisognerebbe fare qualche passo indietro. Le gabbie, le recinzioni nelle arene, per separare le tribù del tifo: mi angosciano, aboliamole. Non era così, una volta. Glielo giuro. Non era così». Roberto Beccantini Daipugni in bianco e nero di Benvenuti al mito delle Fenari ALBUM DI CINQUANTANNI il^SWW^M^* 11P dTA Enzo Bearzot. Sopra, dall'alto Giovanni Agnelli e Massimo Moratti, neopresidente dell'Inter La formazione del Grande Torino, un mito non solo nel mondo del calcio. A destra, Coppi e Bartali.