Il cameriere ribelle scrittore per caso
tuttolibri LA STAMPA Sfibrilo IS Febbraio iW'i IPECHINO UNGO, allampanato, con un largo maglione nero, jeans e scarponi militari sembra avere appena 17 anni invece dei 40 che sfiora. Xu Xing (autore di Quel che resta è tuo) si arrotola le sigarette preoccupato di non perdere le cartine: «Sono impossibili da trovare a Pechino». Non parla di letteratura o di arte ma solo di cose quotidiane che però in questa cornice, in questa Cina, sono enormi. «Quando chiedo loro che cosa hanno fatto, i miei amici stranieri rispondono tutti allo stesso modo, sono andati a scuola, poi all'università, hanno avuto una fidanzata, due, tre... magari sono scappati di casa, poi ci sono tornati, niente di speciale. In Cina invece tutti hanno una storia, solo che nessuno la racconta», spiega. La sua storia comincia nel '57. Ha appena un anno, ultimo di quattro figli di un ingegnere venuto dalla Manciuria e con un passato di lavoro con il Kuomintang di Chiang Kai-shek: suo padre viene mandato in un campo di rieducazione durante la campagna contro la destra ordinata da Mao e gestita da Deng. La famiglia comincia a dividersi ma la vera diaspora è dieci anni dopo, durante la rivoluzione culturale. I tre fratelli si disperdono ai quattro angoli del Paese in cerca della rivoluzione, la madre è spedita in Mongolia con l'ospedale dove lavora, Xu Xing, undicenne, rimane a Pechino. «Mia madre mi mandava i soldi e pagava una trattoria per prepararmi da mangiare. Vivevo solo, sono stato in prigione più volte, complessivamente un anno. Ho rubato, ho fatto risse, sono andato a letto con delle donne, e allora era proibito se non eri sposato. Poi, a 17 anni, mi hanno mandato in campagna». OTORINO MICIDIO al Valentino, in un'estate degli Anni Trenta, cheta come una fotografia di Mario Gabinio. Qualcuno a mezzanotte (il titolo del giallo che vi ruota attorno, Rusconi, pp. 217, L. 26.000) spara a Oscar Siboni, scrittore e sceneggiatore di poca stoffa, dongiovanni malgrado le infelici sembianze, ricattatore ostinato. Nell'affocata città, a pedinare l'assassino è il commissario Martini, già capo della Mobile. Un detective elegante, non avaro di charme, fortunato e suadente, modellato da Gianna Baltaro, sessantanovenne signora di biscuit, eco di una stagione lontana, ovattata, garbata. «E' dal '90 che invento storie. Tutte ambientate sotto la Mole. L'unico viaggio, sulla nave da crociera Augustus, destinazione New York, me lo sono concesso in Delitti di prima classe, la penultima vicenda, uscita nella collana "Il Giallo Mondadori", quasi una laurea, dopo il "noviziato" per i tipi di "Piemonte in bancarella". A Rusconi sono giunta, come dire?, per gentile concessione di Segrate». Ama Rex Stout, Gianna Baltaro. Non disdegna Agata Christie. Venera Georges Simenon. «Un goccio di calvados? Con il pastis è fra i migliori suggeritori di Maigret...». Lo studio, foderato in legno, è un angolo di passato remoto, con un tocco tardo liberty, il manifesto che inneggia al «Cherwy, liqueur digestive». «La Francia mi è familiare. Vi andai, ero piccola, al seguito di mio padre, costretto a emigrare. Ma è quello subalpino, piccolo e antico, il mondo che prediligo». Fuori, lungo il corso, un frammento di boulevard in trasferta, passeggiano i bouquinistes, si allargano gli ombrelli. Una cartolina innocente: i vetri di casa Baitaro sono lenti magiche che inceneriscono la volgarità. «Sa perché mi muovo romanzescamente (e non solo) negli Anni Trenta? Sono i custodi di un galateo da tempo polverizzato. Sfuggo il noir, l'hard, l'abnorme. Coltivo le tinte lievi, sfumate. Il ses- ra, tuttolibri
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