Bianchi e neri, siamo figli di un Edipo d'Africa

Bianchi e neri, siamo figli di un Edipo d'Africa Parla lo scrittore meticcio Henri Lopes: dopo la «nausea» per la Francia razzista diventò primo ministro del Congo Bianchi e neri, siamo figli di un Edipo d'Africa Dalla Sorbona a Brazzaville, per non «disintegrarsi» e perdere l'anima L MILANO A data da ricordare ò quel 15 agosto del '60 a Brazzaville, quando nella piazza davanti al municipio il ministro André Malraux, inviato di De Gaulle, annuncia l'autonomia della Repubblica del Congo, un territorio grande come l'Italia con due milioni di abitanti. «Ero in mezzo alla folla ed ero felice ricorda lo scrittore Henri Lopes -. Avevo ventitré anni. Un nuovo avvenire si stendeva davanti a me, più vasto della savana dove vedevo gli elefanti». Lopes ha studiato alla Sorbona, è un intellettuale marxista («Chi non lo era allora?»): fa carriera politica, è primo ministro dal '73 al '75. Poi se ne va, diventa scrittore. Lavora a Parigi come funzionario dell'Unesco. Lopes è a Milano per presentare il suo nuovo romanzo, Cercatore d'Afriche (Jaca Book). Racconta: «Vede questa mia pelle? Sono un meticcio, figlio di padre e di madre meticci. In Africa mi prendevano per bianco, a Parigi per nero. Chi ero io? Ho sofferto... Ho abbandonato la politica perché capivo che c'era qualcosa di più importante: ho scelto di lavorare sull'anima. Sono stato onesto: non mi sono arricchito. Ho visto la ricchezza della nostra tradizione, ma perché essa funzioni noi africani dobbiamo liberarci dai pregiudizi, razziali e non solo razziali. L'autocritica, ecco il lavoro che ci aspetta. Io voglio contribuire». Durante la sua vita di uomo politico non sopportava più di parlare con tante, troppe persone: «La mia porta era sempre aperta. Mi dissipavo, mi disintegravo». Leggeva e rileggeva i maestri della négritude, il senegalese Senghor e il martinicano Césaire. Smontava e ri- montava Flaubert: «Mi ha insegnato la cura delle parole, le risorse del tempo narrativo. Per scrivere un romanzo al computer mi bastano sei mesi; ma mi occorrono due anni per rifare, per scalpellare le parole». Scoprì Rilke: «Mi sono detto: Henri, buttati, dacci dentro. Cosa ti dice Rilke? Non evitare la sofferenza, ma approfondiscila, vivi di essa, sii soltanto scrittore. Sono un cattivo allievo: mi divido tra l'ufficio in place de Fontenoy e le mie storie d'Africa e di Francia». In Cercatore d'Afriche s'intrecciano il fiume Congo e la Loira, Brazzaville e Nantes. E' la storia di André, abbandonato dal padre, un medico francese, fra le braccia della madre nera nel villaggio di Ossio. André va a insegnare a Chartres e insegue il padre, che alla fine ritrova. Ama senza saperlo la sorellastra; e il padre, quell'uomo dal volto ossuto e dai baffetti alla Errol Flynn, muore... «Non è tanto il mito di un Edipo scuro. E' che siamo un po' tutti senza padre, senza un padre soltanto, e tutti i padri ci arrivano nel sangue e siamo di diverse nazioni insieme, legati gli uni agli altri». Le pagine più suggestive richiamano scene antiche, quando André ò piccolo. Si ode un tuono: «E' il buon Dio che fa rotolare barili di benzina», gli spiega la madre. Il cinema è all'aperto: nascosto tra i rami di un mango, André sente anche le cicale e i rospi cornuti. Lo zio Ngantsiala ha la faccia divisa in due da una striscia bianca, una metà rossa e l'altra gialla, e tiene in mano uno scacciamosche fatto con peli di coda di bufalo. Tutti vogliono toccare un bianco per vedere se la sua «pelle di maiale è naturale, è carne, liquido o pittu¬ ra, e se può schiarire, al contatto, la loro pelle». André conosce la «nausea» di quella Francia che lo guarda e lo indica nelle vie. C'è una specie di guerra dei juke-box: nei caffo degli Anni 50 i neri gettonano Bechet e Armstrong, i bianchi replicano con Edith Piaf e Line Renaud. L'amore è con la dolce Kani: André ne ricorda il profumo di frangipane e di ylang-ylang; quando si abbracciano lei lancia un grido, e quel grido colma la stanza «di lucciole, delfini e zampilli». André torna a Brazzaville. Parla la lingua locale, ma il tassista lo scambia per uno della Martinica e proseguono in francese: «Dunque - commenta Henri Lopes - la nazionalità non è importante. E il francese non è una lingua straniera. Fra due anni vado in pensione e torno in Africa, ma lì non posso scrivere: ci sono troppi stimoli. Risalirò così in Francia o altrove in Europa: mi piace tenere stretti i due continenti». Claudio Altarocca I maestri: Rilke e la négritude di Senghor Lo scrittore «meticcio» Henri Lopes