«Mafia e politica, una storia d'amore»

«Mafia e politica, una storia d'amore» «Mafia e politica, una storia d'amore» Parla Antonino Calderone, il grande accusatore IN FUGA DALLA CUPOLA LA politica? Si sposava bene con Cosa Nostra, è stato così da sempre. Era un amore che si svolgeva bene. 1 politici accarezzavano la mafia e questa restituivaje carezze. Noi, a Catania, facevamo "Iecòsé in piccolo'perché non avevamo una grande importanza. Eravamo due "famiglie" - Catania e Ramacca - e gli uomini d'onore erano pochi. Ma Palermo, quella sì che comandava. La mafia di Palermo ha sempre dettato legge e controllava il potere politico. Palermo era una specie di santuario, come il Vaticano per la Chiesa cattolica». Nino Calderone parla davvero come un ex. Da dieci anni vive fuori dalla mischia ed è forse l'unico collaboratore della giustizia ad aver dato una taglio netto col suo passato. Si è pentito sul serio, anche in senso cattolico. Per questo i suoi racconti non hanno nessuna zona d'ombra: quel che aveva da dire l'ha detto. Il suo «prezzo» l'ha pagato ed ora vive lontano «dalle fogne di Cosa Nostra». Accetta l'invito per un incontro, dopo essersi sincerato che non vi fossero «controindicazioni delle autorità». Un lunga chiacchierata con La Stampa e Mixer - cominciata di mattina presto all'interno di una struttura superprotetta e finita in un ristorante della periferia romana, davanti agli spaghetti con le vongole e una spigola all'acqua pazza, ricordando gli arancini e i cannoli di Savia o del bar Mantegna di via Etnea e guardando le foto del «compaesano» Pippo Baudo, di Franco Califano, Mario Merola e di tante altre star della tv che fanno capolino dalla bacheca del ristorante. LA POLITICA E LA MAFIA. Tutto accade domenica 29 gennaio. Calderone è a Roma per testimoniare. Una sola condizione, prima di incontrarci: l'intervista non può essere data mentre lui si trova ancora a Roma. Promessa mantenuta. Ed eccolo «zu Nino», come lo chiamano persino i poliziotti che lo scortano e che non lo lasciano un minuto. Non dimostra i suoi 60 anni, malgrado la pancetta che non gli impedisce di «assaggiare» pure la frittura di calamari di uno degli agenti. Il discorso d'attualità è la politica. «Glielo ripeto. A Catania ci davamo da fare, mi ricordo che appoggiavamo il socialdemocratico Lupis. Sapevamo pure che Nino Drago era l'amico di Andreotti e quindi poteva molto. Le regola di Cosa Nostra vietavano di votare i comunisti o i fascisti: il partito totalitario non piaceva alla mafia». E Salvo Lima? «L'ho conosciuto a Roma, nell'ufficio del costruttore Franco Maniglia. L'appuntamento fu preso tramite Nino e Ignazio Salvo. Si sapeva che Lima era agganciato bene, quindi ci rivolgevamo a lui anche per le cose più complicate. Stava con Andreotti. Quella volta dovevamo far trasferire un commissario che ci dava fastidio, si chiamava Cipolla, "Ciccio" Cipolla. Lima mi disse che si sa- rebbe interessato, così in effetti fu. Qualche tempo dopo, infatti, Ignazio Salvo ci comunicò che Lima si era informato e che non c'era bisogna di intervenire perché il trasferimento l'avrebbe chiesto lo stesso commissario per raggiungere la moglie insegnante che aveva avuto una sede lontana da Catania». Già, le relazioni pericolose. «Tutto avveniva di persona. Allora non si usava il telefono: se dovevi parlare con qualcuno dovevi andarci. Punto e basta. Ricordo quando arrivava a Catania Giuseppe Genco Russo, il capo di tutta la mafia. Non è che telefonava, si presentava in macchina con le tasche piene di bigliettini di raccomandazioni. Si occupava di tutto, dal trasferimento di un bidello alla promozione di un direttore di banca». Oppure dell'aggiustamento dei processi, vero? «Già. Spesso si avvicinavano i giudici popolari. Erano piccoli impiegati che venivano dai paesi e in ogni piccolo paese c'è sempre un grande mafioso». IL BACIO TRA UOMINI. Altri tempi, anche se abbastanza simili, nella sostanza, a quelli attuali. Adesso in più c'è forse qualche «telefonino». Come funzionava allora? «A me la mafia mi sembrava una cosa bella. Noi abitavamo più in là di San Cristoforo ed eravamo davvero poveri. Mio fratello Pippo era più grande di me di dieci anni e io lo guar- davo come un esempio. Di Cosa Nostra non sapevo niente, ma vedevo questi uomini che si incontravano, si baciavano e tenevano in considerazione Pippo benché fossero più anziani. Li vedevo quando entravano al bar: tutti si alzavano e facevano a gara per offrire qualcosa. Mi sembravano potentissimi». SEDUTO COL FUCILE. C'è sempre un momento in cui uno non può più «non sapere». «Una notte tornando a casa vidi un uomo per terra, in via Plebiscito. Mi sembrava morto, Cambiai strada e cominciai a correre. Trovai mio fratello Pippo seduto davanti alla porta socchiusa e imbracciava un fucile. Non volle rispondere alle mie domande, fu evasivo. L'indomani seppi che era stato un falso allarme, quell'uomo per terra era solo un ubriaco, ma vedendo Pippo preoccupato fino a vegliare col fucile, capii che significa vivere con l'angoscia di essere uccisi. Poi, una volta affiliato, seppi che i timori derivavano dal fatto che era cominciata la guerra di mafia. Tutto cambiava, guardavo con occhi diversi persone, come Nitto Santapaola, l'assassino di mio fratello che avevo considerato come un parente. Questa è la mafia: non c'è amicizia più forte del legame mafioso, la "famiglia" deve essere più importante del vincolo di sangue». COME NEL «PADRINO». E'il «giuramento» che apre un mondo nuovo. «La mia iniziazione mi fu annunciata come un regalo. E mi sembrò di vivere un'altra realtà. Da quel momento incominciai a vivere due vite: una normale, alla luce del sole, la vita reale di ogni giorno. Un'altra segreta e terribile. Come al cinema. Già, certi film dovrebbero proibirli. Trasmettono violenza e qualche volta ti fanno venire cattivi pensieri. Per esempio 11 Padrino. Non era male... però tante cose sono state copiate da lì... Sa, qualche volta il cervello porta a fare cose uguali. Penso al- | l'omicidio di Candido Ciuni, assassinato in una corsia dell'ospedale Civico. Proprio come la scena del Padrino, anzi questa finiva muglio perchè don Vito veniva salvato. Ciuni invece...». IL RIMORSO. «La guerra di mafia mi ha fatto capire che avevo sbagliato mestiere, mi ha fatto toccare con mano le infamie di Cosa Nostra. La violenza, il sangue le false regole, i falsi valori, le parole d'onore date e violate. Ho lottato due notti e un giorno per salvare la vita di quattro ragazzini portati al macello in una casa di campagna Non ci sono riuscito e questo rimane il mio rimorso più grande. Li hanno ammazzati e io, vi giuro, piangevo impotente e non dovevo farmi vedere. I miei sogni sono ancora popolati da quei fantasmi: quello che ho pagato non sarà mai abbastanza per ottenere il perdono». I CAPI. «Ho conosciuto i grandi capi della mafia. Luciano Liggio, un vero spaccone, lo chiamavamo il professore perché filosofeggiava sempre. Una volta lo vide Margherita, che ancora non era mia moglie e mi chiese chi fosse: le risposi che era un professore, ma lei mi zittì: "Ma che professore! Quello è Liggio, l'ho visto sul giornale". Certe volte le donne sono più mafiose degli uomini. Ho co- nosciuto Totò Riina, che chiamavamo 7/ ragioniere perché aveva la mania dei conti. Bernardo Frovenzano era inteso 'u fratturi, per i modi violenti. Sono stato con Buscelta, coi Greco, con Tano Bada lamenti che aveva proprio un'antipatia per Riina. Sono stato amico di Stefano Bontade: quando ammazzarono mio fratello Pippo mi chiese se volevo vendicarmi. Ero già troppo disgustato e volevo solo uscire da Cosa Nostra. Santapaola mi disse che era impossibile, quindi fuggii in Francia con la mia famiglia». MARGHERITA. «Mi arrestarono a Nizza e mi portarono nel carcere di Marsiglia. Devo a mia moglie se non sono impazzito. Ho preso la decisione di pentirmi e lei mi ha assecondato: mi ha regalato la certezza che i miei tre figli non si sarebbero persi, lo da grande mafioso non ero riuscito a realizzare quanto ha saputo fare lei mantenendo unita la famiglia. Devo la mia salvezza a Margherita, ma anche a Giovanni Falcone e al dott. Antonio Manganelli. Il giudice, pur senza strumenti dato che allora i pentiti erano marziani, ha saputo capire i miei problemi e mi ha aiutato a fuggire dalla mafia. Manganelli è slato il secondo padre dei miei figli: quando sono scomparso per parlare li ho affidati a lui. Lo ringrazio ancora». COME UN FRATE. «I primi anni li ho trascorsi in un convento, non sapevo nulla della mia famiglia, neppure dov'era. Margherita mi faceva avere ogni tanto delle foto: una volta, a Natale, me ne mandò una che ritraeva la tavola imbandita e il pia! to al mio posto. Non ci crederete, ma con queste piccole cose sono sopravvissuto. Non scorderò mai il priore del convento. Mi ha dato un orto da lavorare e mi ha parlato tanto. Facevo la stessa vita dei frati». LA LIBERTA'. Adesso è un uomo normale, con una nuova identità, in un posto lontano e sconosciuto. «Mi sento libero. Non ho più addosso quella cappa insopportabile che hanno i mafiosi». Rimpianti? «Dovevo seguire il consiglio di mio zio Luigi, capomafia morente che mi invitava a non farmi mafioso. Ricordo ancora quel discorso: "Ti dico una cosa: è una vita che faccio questa vita, ho perduto un fratello, vedi, sto morendo e non ho una lira, non sto lasciando niente a nessuno. Come te la prospettano sembra una bella cosa". Poi mi indicò un vaso e disse: "La vedi quella rosa? E' bella ma se ti avvicini punge. Senti a me, è bella la libertà"». Dice 'zu Nino, un tantino commosso: «I mafiosi non lo sanno quanto si sentirebbero meglio se si pentissero». Francesco La Licata «I boss hanno sempre dettato legge ai partiti: Palermo era un santuario come il Vaticano per la Chiesa» A Salvo Lima chiedevamo aiuto soltanto per le cose complicate come far trasferire un poliziotto Mi sembrava di vivere un'altra realtà Ma quando Santapaola uccise mio fratello capii che cos'è la mafia In qualche agguato abbiamo anche copiato il «Padrino» Per questo certi film andrebbero proibiti I senatore a vita Un gruppo di boss e altri imputati nelle gabbie di un maxiprocesso antimafia celebrato al tribunale di Palermo Sotto, Antonino Calderone, esponente della mafia catanese poi diventato un collaboratore di giustizia I senatore a vita Giulio Andreotti Venerdì sarà davanti al giudice di Palermo L'eurodeputato Salvo Lima, ucciso in un agguato. A sinistra, una scena del «Padrino»