Shain: non merito il rogo

Shain: non merito il rogo Shain: non merito il rogo Al FilmFest la pellicola «blasfema» IL REGISTA CONDANNATO DAI MULLAH F BERLINO OLLA di spettatori a una proiezione di massima sicurezza, applausi, discussioni appassionate, solidarietà, calore al FilmFest per «Al-Mohager» (L'emigrato) di Yusscf Shain (o Youssef Chaine, alla francese), il film e il regista egiziani adesso al centro d'un conflitto tra cinema e Islam, tra libertà d'espressione e dogmatismo religioso, tra arte e teologia, che simboleggia molto bene il rapporto dello Stato con l'islamismo, la condizione in cui intellettuali e artisti si trovano oggi a lavorare al Cairo. Un altro Salman Rushdie, una condanna al rogo? «Spero proprio di no», scherza il regista quasi settantenne che è il cineasta egiziano più noto nel mondo, un uomo di gran talento, combattivo, colto, democratico, molto simpatico. «Le cose stanno in un altro modo». Come stanno, allora? «La tempesta del Cairo non è un attacco contro di me personalmente, neppure il partito islamista m'ha trattato con cattiveria. Riguarda piuttosto due istituzioni egiziane. Da una parte la censura governativa, che ha fatto tutti i controlli usuali approvando preventivamente il copione, sorvegliando la lavorazione sul set, visionando la copia finita di "Al-Mohager", e dandomi tutti i permessi necessari: tant'è vero che il film è uscito, in undici settimane ha avuto un gran successo, è stato programmato in altri quattro Paesi arabi, è stato visto da un milione di spettatori. Dall'altra parte il clero dell'Università islamica Al-Azhar che, nel caso sorgano problemi religiosi, ha funzioni di consulenza e il compito di fornire al governo pareri non vincolanti». E qual è il problema religioso del suo film? «Lo ha sollevato un avvocato islamico, Mohamed Abu Ai-Faid, uno che già in passato aveva intentato un procedimento perché venisse proibita una canzone d'un celebre compositore egiziano. Stavolta il bersaglio sono io: ha voluto imbrogliare le cose portandole sul terreno giudiziario. Una prima sentenza mi ha dato torto. Ho interposto appello. La seconda sentenza è prevista per la fine di marzo». La prima sentenza non ordinava che tutte le copie del film venissero ritirate, che nessuna copia potesse venir esportata all'estero, che fosse vietata la diffusione di «Al-Mohager» in videocassetta? Al FilmFest di Berlino il film è stato presentato clandestinamente, illegal¬ mente? «Assolutamente no. Il film è stato realizzato in coproduzione con la Francia, e sulla Francia o sull'Europa i magistrati egiziani non hanno giurisdizione. Al festival di Locamo (dove pure il film ò stato programmato) e a questo di Berlino, io sono perfettamente nella legge: non ho esportato nulla illegalmente, la copia era in Francia da mesi, nelle mani dei comproprietari francesi». Il problema religioso... «Mi si accusa d'aver usato un'allegoria religiosa, d'aver violato la proibizione di rappresentare i profeti al cinema, alla tv e a teatro». Perché questa proibizione? «Tutti i profeti e la gente di Maometto non possono venir rappresentati. Non si può cristallizzare l'immagine d'un profeta in un personaggio cinematografico. Lo trovo comprensibile: per rispetto, e perché ciascuno deve potersi creare il profeta secondo la propria immaginazione. Pensi a tutte le volte che Gesù è stato impersonato da attori al cinema o alla tv: come minimo, si può dire che non sempre è andata bene». Ma il protagonista del suo film non è un profeta. «Ecco il punto. Anche se è una storia di tremila anni fa, "AlMohager" resta in qualche modo autobiografica. Quand'ero giovane e volevo imparare il cinema, sono andato a Hollywood. Il film racconta la ricerca del sapere, e qual era allora l'equivalente di Hollywood per me? L'Egitto dei faraoni, centro della civiltà, luogo d'ogni scienza». Tuttavia la sua storia autobiografica è simile a quella biblica di Giuseppe e dei suoi fratelli, e Giuseppe è per i musulmani uno dei profeti. «Così dicono i teologi dell'Università islamica Al-Azhar. L'eroe somiglia a Giuseppe, dicono. Può darsi che gli somigli: ma non è lui. Non si chiama Giuseppe, si chiama Ram. Del resto la storia di Giuseppe trent'anni fa è stata recitata a teatro, un anno fa è stata raccontata in un serial televisivo». Cos'è cambiato, in un anno? «Il clima». Il clima religioso? «I miei rapporti con la religione sono sempre stati cortesi: ho vissuto in un Paese islamico senza avere alcun problema. L'università Al-Azhar ha un alto presti¬ gio, ha dato grandi pensatori e artisti: oggi ospita una fazione che aspira a esercitale l'egemonia nel Paese. L'Egitto è una nazione grande, colta: ma oggi arrivano dal deserto nuvole nere, portate da moltissimi soldi. Oggi, senza parlare degli eventi tragici, accadono cose mai successe prima. Gli opportunisti si moltiplicano. C'è gente, all'interno delle sette reti televisive egiziane che formano il monopolio governativo della tv, che s'inventa divieti, che protesta se qualcuno ! sul video tiene in mano un bicchiere di tè: "Come fa il pubblico a sapere che è tè e non il whisky proibito7". Ci sono attrici che repentinamente proclamano d'essersi redente, d'essersi allontanate dal demonio, e mettono il velo. C'è una tendenza a impadronirsi dell'Egitto, non fisicamente ma attraverso i media: è la guerra moderna». Da dove arrivano questa guerra, queste nuvole, questi soldi? Dall'Arabia Saudita? «Non l'ho detto. Non lo so. So che il governo è troppo desideroso d'accontentare tutti e di durare per salvaguardare e difendere le prerogative dello Stato. E' una novità, per l'Egitto. Non bella». Una novità rischiosa per il cinema, per la cultura egiziana? «Intellettuali, cineasti, scrittori, poeti, avvocati, sostenitori dei diritti civili e della libertà d'espressione si sono schierati solidali al mio fianco proprio perché hanno sentito l'enorme pericolo che i divieti religiosi possono rappresentare per la cultura». E lei cosa farà, adesso? «Mi hanno messo in una situazione ambigua, sgradevole. Essere attaccato per un malinteso è noioso. E non mi piace l'aria che circola in Egitto, non mi piace il sentore di questa polemica; non capisco, oppure temo di capire». Lietta Tornabuoni A Berlino il lungometraggio «Al-Mohager» che un giudice egiziano ordina di bruciare «C'è un equivoco Non ho mai voluto mettere in scena il profeta Giuseppe Sono un laico ma non un Rushdie» qresta si possono produrre migliaia di bombe atomiche. In queste condizioni di incertezza, «Israele non se la sente di svelare i suoi segreti ai quattro venti». Ma per il Cairo resta comunque inaccettabile che Israele pretenda di restare l'unico Paese nucleare della regione: «Non chiediamo il suo disarmo, ma vogliamo sapere cosa avviene nei suoi impianti nucleari», ha detto Mussa. Intanto anche le relazioni fra Israele e l'Autorità palestinese so- - r. ppstinese Yasser Arafat di assumere il controllo degli affari municipali viso: rientrSALdadindis(aindmsIloaSR ! L'università di Al-Azhar al Cairo detta interpretazioni della legge islamica (Sharia) accettate in gran parte del mondo musulmano sunnita In basso lo scrittore anglo-indiano Salman Rushdie

Persone citate: Gesù, Lietta Tornabuoni, Mohamed Abu, Mussa, Rushdie, Salman Rushdie, Yasser Arafat, Youssef Chaine