«Servono prove, non analisi politiche» di Giuliano Ferrara

«Servono prove, non analisi politiche» «Servono prove, non analisi politiche» «Troppi punti non precisati nelle accuse al senatore» GIULIANO FERRARA Caro direttore, oggi è il giorno del processo per mafia contro Andreotti. Dunque mi sono letto e riletto, con la massima attenzione, uno dei documenti principali dell'accusa. Si tratta della memoria del pubblico ministero in cui è precisata, dettagliata e sintetizzata la strabiliante imputazione contro lo statista democristiano: non già un eufemistico «concorso» di reato bensì una diretta responsabilità nella «associazione per delinquere di stampo mafioso», ex art. 416/bis del codice penale. Ho scoperto che il cuore dell'accusa è formulato in lingua latina e consiste di questa espressione: «Id quod plerumque accidit» ovvero «quel che accade per lo più» (o «nella maggioranza dei casi»). Il pubblico ministero sostiene infatti che in un giorno imprecisato, forse il 20 settembre del 1987 (definito «una delle possibili date»), Giulio Andreotti si incontrò con Salvatore Riina, il quale lo baciò cerimoniosamente e allusivamente davanti a Balduccio Di Maggio, uomo d'onore e testimone oculare. Vero o falso? Provato o non provato? Questo è il problema. Il problema del processo non potendo mai essere altro che questo. Ripeto, con enfasi: vero o falso? Provato o non provato? Invece di tentare una risposta, la memoria d'accusa dei magistrati di Palermo si avviluppa in una argomentazione, generosa nelle intenzioni ma assurda, e perfino surreale, nei risultati. Il cuore di questa argomentazione è la questione della verosimiglianza. Id quod plerumque accidit, appunto. Quel che è verosimile che accada, date certe circostanze. I magistrati sostengono che la difesa del senatore Andreotti ha compiuto, sulla fatidica questione de! bacio, una manipolazione sottile dell'opinione pubblica puntando tutte le sue carte, appunto, sull'inverosimiglianza dell'incontro e delle effusioni del boss dei boss verso lo statista. E' vero infatti che la difesa di Andreotti e Andreotti stesso hanno contato molto sull'incredulità popolare, sul senso comune, su una logica accettata (ma non per questo inattaccabile). Al fondo di questa logica sta l'esclusione, come scrive il pubblico ministero, della possibilità che «un potente inavvicinabile dai comuni cittadini... possa essere trattato alla pari, anzi con irrispettosa confidenzialità, da Sal¬ vatore Riina, un delinquente, un ex contadino di Corleone, che a stento sa esprimersi in italiano». Ora due sono le cose. 0 Andreotti ha incontrato Riina, visto che (come mi ha gentilmente ricordato un amico disincantato) nella vita aveva già incontrato tipi come Andropov o i fratelli Assad, e dunque era (verosimilmente) allenato al male. Oppure no, non l'ha incontrato. Ma in entrambe le circostanze resta ben fermo che era diritto suo e diritto professionale della difesa rilevare l'inverosimiglianza dell'accusa, a quel modo formulata. E dire ad alta voce, davanti a tutti: «Ma vi pare che per comunicare con un capomafia, essendo a sua disposizione (secondo l'accusa) una catena di politici collusi, uno statista di quel calibro vada a rifugiarsi nella casa di un uomo d'onore agli arresti domiciliari, per poi farsi sbaciucchiare alla presenza di testimoni?». Andreotti ha quindi tutto il diritto di affermare: «Quel che voi sostenete è incredibile». Ma hanno diritto anche loro, i magistrati, a puntare sul teorema della verosimi¬ glianza, sia pure capovolto? Perché è esattamente questo che essi fanno. Rovesciano specularmente l'impostazione della difesa e affermano che, date certe caratteristiche del fenomeno mafioso e del personaggio Andreotti, è del tutto verosimile che questi abbia avuto un abboccamento con Riina, con il bacio e tutto il resto. La mafia infatti non è una banda come le altre, è un Antistato; ed è, conclude la procura di Palermo, perfettamente possibile che, a un certo punto della sua vicenda «politica» (alla vigilia della conclusione dello storico, grande processo a Cosa nostra), il vertice della mafia abbia cercato il colloquio diretto con il vertice dello Stato. Per garantirsi, per controassicurarsi, per passare all'incasso di una lunga storia di complicità occulte, per lanciare un segnale all'esercito timoroso di una infausta conclusione del processo. I grandi romanzi sulla colpa, firmati Dostoevskij o Kafka, sono pieni di argomentazioni sul filo della verosimiglianza e del possibile. Anche la storia, malgrado il precetto di Ranke, il quale voleva raccontare le cose «come sono realmente accadute» («wie es geschehen ist»), deve tuttavia far uso della ricostruzione probabile. E la politica, che non conosce l'innocenza, pullula di azzardi e di giudizi ellittici, privi di una intima congruità con lo coso: molti italiani, per esempio, sono convinti che Moro poteva essere salvato, e che non è stato salvato perché a capo del governo c'ora Giulio Andreotti, sulfureo avversario del leader rapito, «un uomo difficile da seguire nei meandri della sua vita politica» (come fu detto di Talleyrand). Tuttavia in questo processo «catastrofico», in questa lenta espiazione di mezzo secolo di vita pubblica italiana, non è in ballo una credenza o un incubo letterario o una interpretazione più o meno sottile e convinta della nostra storia recente: qui è in ballo il diritto di punire legalmente un reato provato al di là di ogni dubbio. Dobbiamo quindi scegliere tra l'espressione latina «id quod plerumque accidit» e l'espressione tedesca «wie es geschehen ist», tra il possibile politico ed il certo giuridico. La memoria d'accusa dei magistrati di Palermo, naturalmente, non contiene soltanto giudizi di verosimiglianza. In alcune parti è fattuale, attacca con qualche successo la linea di difesa dell'indagato, lo obbligherebbe (come sperabile) a dire di più e meglio in quale contesto di circostanze reali e in quale sfondo politico-storico sono maturate le accuso che lo riguardano. Ma nei momenti decisivi, invece di limitarsi alla nuda registrazione delle «confessioni» in varia e difforme versione dei mafiosi pentiti, come i verbali che raccolgono la deposizione di Balduccio Di Maggio, il testimone oculare, l'accusa cede platealmente e imperdonabilmente alla tentazione dell'analisi politica, sempre per sua natura opinabile, e a un calcolo delle probabilità e delle verosimiglianze che dovrebbe rigorosamente stare fuori da una salutare concezione dello Stato di diritto. Fuori, rigorosamente. Giuliano Ferrara

Luoghi citati: Corleone, Palermo