La lezione del Grande Scorbutico

La lezione del Grande Scorbutico La lezione del Grande Scorbutico «Con la destra mai, ho visto il nazismo» UN CAPITALISTA CHE ODIAVA LA VOLGARITÀ' COME finirà la sua vita Bruno Visentini? Chi andrà ai suoi funerali?», si era macabramente chiesto Giorgio La Malfa, in uno sbocco d'iracondia politica (perdonabile, perché riteniamo se ne sia subito pentito), quando il Professore abbandonò definitivamente, dopo una vita, il partito repubblicano. Noi, per quel che conta, ci andremo a quei funerali e siamo certi che La Malfa, il quale non diserterà, vi troverà un bel pezzo d'Italia seria a dire addio al Grande Scorbutico, quell'uomo dell'Ottocento, appassionato di incunaboli quattrocenteschi e di Wagner, in apparenza ostico, quasi antropologicamente incapace di parlare alla plebe, allergico, per dire, alle osterie (soltanto una volta in vita sua ne varcò una soglia, insieme a Comisso) e alla volgarità montante, per sua stessa ammissione un po' arrogante e presuntuoso, ma all'altezza come pochi di quello che chiamava «l'onore di vivere». Strano che- La Malfa non avesse colto che la nuova deriva del Paese non aveva affatto mandato in aceto il vino politico di Visentini, che pure della razionale acidità ha fatto la sua cifra più pregevole, ma lo aveva migliorato, incorporandovi una rinnovata passiono, una nuova elaborazione da ottantenne colto e realista, non più interessato a progetti e onori personali. Poco più di una settimana fa, il Professore ci aveva detto per telefono di condividere appieno la tesi di Sergio Romano secondo cui una nazione non può sopravvivere senza un establishment, si era abbastanza mestamente compiaciuto della fiducia ottenuta dal governo Dini, formato di persone capaci sganciate dai partiti: non che le prospettive generali gli apparissero più rosee, ma, perlomeno, vedeva in momentanea difficoltà quella gente della destra, con cui mai avrebbe potuto andare uno così disse - con il suo passato. Non è, del resto, il governo Dirti una tardiva' applicazione della teoria visontiniana del governo non dei tecnici (ancora contestava la prevalente e, a suo dire, inesatta dizione giornalistica) ma senza palliti, da lui enunciata per la prima volta tra il 1981 e il 1982 e che gli procurò tante accuse di sovversivismo e gollismo nell'Italia social-democristiana? Poche parole sui contorcimenti di Buttiglione. Il suo giudizio, definitivo, sull'attuale leader dei Popolari, l'aveva già dato, in fondo, dieci anni fa, quando Comunione e Liberazione aveva dedicato uno dei suoi meeting di Rimini a Parsifal. La colorazione del Parsifal che conosciamo - aveva spiegato - non viene dallo storie medievali, ma dalla musica di Wagner: negli anni di Hitler, Parsifal è stato il simbolo del germanisimo trionfante. Perciò, se CI e Buttiglione non vogliono far risorgere certi fantasmi, per lo meno riconoscano il loro infortunio culturale, perché chi ha vissuto quegli anni, di fronte a queste scelte, trema. Lui, quegli anni, li ha vissuti dolorosamente: ha visto le squadracce minacciare suo padre e i preziosi incunaboli custoditi nella «Casina di campagna», in realtà una villa palladiana di Vascon, provincia di Treviso; ha visto trascinar via dalle SS verso via Tasso il suo amico e maestro Stefano Siglienti; egli stesso uscì dal carcere il 26 luglio 1943. Chi ha il mio passato - ci disse l'anno scorso, alla vigilia delle elezioni - come può andare con gli eredi di quella gente torbida, rissosa, revanscista, tutta ispirata dalla demagogia? Ma, per essere sinceri, ce l'aveva più con Berlusconi che con Fini: per lo meno Fini sappiamo chi ò da cinquantanni, diceva. Berlusconi, invece, non sappiamo bene cos'è, se non un demagogo di stampo sudamericano. «E si sente anche bello», concludeva con stupita severità. Ci colpì quest'osservazione, ma poi, ripensandoci, ne capimmo il senso: Visentini, aristocratico dell'Ottocento di grande cultura ^ mitteleuropea, fasciato nei suoi panciotti di grisaglia, non sopportava gli uomini esuberanti, estroversi, esibizionisti e, quasi sempre, di poca sostanza, li considerava terribilmente volgari. E forse og- gi si può dire che alle polemiche che spesso lo opposero esplicitamente o sotterraneamente a Giovanni Spadolini non era estraneo l'esibizionismo attribuito al suo amico di partito, che giudicava, in certe circostanze, come un «tacchino gonfiato». Ma di Berlusconi aveva fatto - era evidente dopo lo scorso marzo - il prototipo della volgarità da lui odiata sopra ogni cosa. Con chi, del resto, non ha mai litigato, nella sua vita, Bruno Visentini, che - come ha detto Montanelli - aveva quella cadenza trevigiana che in bocca alle donne ò un piumino e in bocca a uomini come lui è una grattugia? Sicuramente con pochi: di Spadolini aveva detto che era massone di temperamento; di Giorgio La Malfa aveva raccontato le prodezze da ragazzino: gli lasciavano far tutto quel che voleva, era un bambino maleducato. E lo è rimasto. Del suo successore socialista al ministero delle Finanze, Rino Formica, parlò come di un poliziotto corrotto che avrebbe potuto fargli mettere droga nelle tasche per farlo beccare da una pattuglia di finanzieri. Del padre di Bruno Trentin, antifascista espatriato durante il Ventennio, disse che vendette le proprietà di Treviso per ricomprare a Tolosa e che, durante il fascismo, non se la passò così male, provocando l'indignata reazione del figlio sindacalista. Il mestiere di antipatico, insomma, il Professore l'ha fatto superlativamente, ma negli ultimi tempi il fantasma del fascismo lo perseguitava di nuovo: «Ero a Berlino il 30 gennaio 1933, quando Hitler prese il potere - ci ha detto qualche mese fa -. Avevo il sogno di una Germania romantica, amavo la musica, suonavo Wagner. Ho visto la nazione di Goethe, che amavo tanto, percorsa dal nazismo. Non chiedetemi perciò di stare con la nuova destra, qualunque abiura Fini faccia». Aveva riscoperto Keynes e il deficit spending, di cui ci aveva parlato ripetutamente negli ultimi mesi, discutendo sui modi per affrontare la disoccupazione. Avevamo ironizzato un po' sul fatto che il Grande Borghese illuminato, per pigra definizione giornalistica, fosse diventato sostanzialmente socio di Bertinotti, l'ultimo dei comunisti con Fidel Castro, e l'avevamo fatto sorridere con la battuta dell'antica pasionaria rossa Luciana Castellina: «Perché un borghese come lui, con villa palladiana, ha tanti amici rossi come noi? Ma perché è un uomo di buongusto!». Ciò che, per la verità, non ha mai pensato Luigi Pintor, che l'ha sempre accusato di mischiare interessi pubblici e interessi privati, ad esempio, come ministro delle Finanze e presidente della Cir di De Benedetti. Il massimo che lui ha concesso non a Pintor, ma agli estimatori di sinistra, è stato di dire che durante il fascismo era difficile non essere comunisti. E una volta ha raccontato magistralmente una storia strepitosa, che vogliamo riferirvi testualmente con le sue parole: «Nel maggio del 1943 mi accadde di essere nuovamente arrestato per attività antifascista. Il commissario che procedette all'incruenta operazione, dopo aver perquisito - accompagnato da mia moglie, allora assai giovane e fiorente, e dalla cameriera l'appartamento che abitavo a Roma in via Panama (il cuore dei ricchi, Parioli - ndr), ritornando in salotto, mi disse con bellissimo accento napoletano e con un'esclamazione che, rompendo ogni formalità, gli veniva dal cuore: "Ma come dottore, voi, con una casa come questa e con una moglie così, vi andate a occupare di quelle cose!"». Ecco il punto, Bruno Visentini ha sempre confessato sinceramente di aver condotto una bella vita nel capitalismo e ne ha ricavato, nella fase di demonizzazione delle élites, dei tatarelliani Poteri Forti, attacchi d'ispirazione un po' plebea, perché la nuova destra come il middle management democristiano (vedi l'ex ministro cossighiano D'Onofrio) l'ha sempre vissuto come una demi vierge nella parte della vestale. Ma l'hanno frainteso, perché mai il Professore s'è sentito una vestale nel respingere, per natura, populismo e, peggio, plebeismo. In morte di un Grande Scorbutico, che non esitava a dipingere se stesso come talvolta «sgradevole», in un mondo massmediale di gradevoli cretini e cotillons, avremmo da proporre un epitaffio, tratto dalle sue parole: Basta che no i me dixa che son un manager. O, in alternativa, stando a Mino Maccari, quando marciò su Roma: Allerta, allerta, siamo nella merta. Alberto Staterà Già all'inizio degli Anni 80 proponeva un governo con uomini sganciati dai partiti «Berlusconi? Un demagogo sudamericano. Buttiglione? Con il suo Parsifal mi fa tremare» aristocratico dellOttocento di grande cultura ^ mente volgari. E forse og- partito, che giudicava, in certe circostanze, come un «tacchino gonfiato». Ma di Berlusconi aveva fatto - era evidente dopo lo scorso marzo - il prototipo della volgarità da lui odiata sopra ogni cosa. Con chi, del resto, non ha mai litigato, nella sua vita, Bruno Visentini, che - come ha detto Montanelli - aveva quella cadenza trevigiana che in bocca alle donne ò un piumino e in bocca a uomini come lui è una grattugia? Sicuramente con pochi: di Spadolini aveva Bruno Visentini In alto, con Giorgio La Malfa Sopra: Giovann Spadolin Bruno Visentini In alto, con Giorgio La Malfa Sopra: Giovann Spadolin