« Per una notizia vale morire»

« « Per una notizia vale morire» Montanelli: i rischi sono parte del mestiere LA MISSIONE DELL'INVIATO UMILANO N inviato di guerra che muore in guerra. Il padre che chiede ai giornali, ai giornalisti, se ne valeva la pena, se un'immagine in più dalla polvere di Mogadiscio, valeva la vita di suo figlio, Marcello Palmisano. Lei, Indro Montanelli, che per vent'anni ha scritto di guerre dentro alle guerre, cosa risponde? «lo capisco il dolore dei genitori. Non me la sento di dire a un padre che un'immagine valeva la vita del proprio figlio, perché sarebbe disumano e anche sciocco, anche crudele. Perciò a lui non posso dire una cosa che ha tutto il diritto di non accettare...». Dire cosa? «Che se uno fa l'inviato di guerra deve mettere nel conto che la sua vita è appesa a una fatalità, a una pallottola, a un agguato, a un'imprudenza». Dunque ne valeva la pena? «Sì, ne vale sempre la pena. Non voglio essere retorico, ma io penso che quando un giornalista muore su un fronte, ha diritto a due cose soltanto. La prima e che si recuperino i resti e gli si diano sepoltura con una piccola lapide: caduto al servizio dell'informazione». E la seconda? «A un po' di silenzio. Con noi non c'è bisogno d'altro». Troppe parole su Palmisano? «Con i morti in Italia si fa sempre molta retorica. Per carità, la famiglia, gli amici, hanno tutti i diritti, ma non si può trattare la morte di un italiano come se fosse la l'ine del mondo». E invece? «Invece ha ragione la giornalista della Rai, Carmen Lasorella, che ha detto: i rischi fanno parte del nostro mestiere. Punto e basta». Il mestiere prima di tutto? «Se uno sceglie di fare l'inviato e poi non va a vedere, che razza di inviato è? Guardi io ho molto rispetto... Non conoscevo Palmisano, ma so che se uno sceglie quel mestiere lì e ha la vocazione, sa perfettamente i rischi che corre». Lei parla di vocazione... «O di pazzia, dipende dai punti di vista». Più una cosa o più l'altra? «Forse tutte e due». Non c'è anche la sfida, un eccessivo amore per il rischio? «C'è eccome. C'è il gusto per l'avventura, la sensazione di trovarsi sempre al limite, dove è in gioco la vita. C'è il protagoni- sino. Ma c'è anche la voglia di raccontare, di essere il testimone di un evento, la guerra, dove sempre gli uomini hanno dato il meglio e il peggio di sé». Per lei la guerra cos'è stata? «Io ne ho viste tante di guerre. A pensarci bene è stata la mia giovinezza». Lo rifarebbe? «Certo che lo rifarei, con le guerre di allora però, quando il giornalista era davvero l'unico te¬ stimone». Oggi ci sono le televisioni, c'è Cnn a copertura planetaria. «Sì, ma dell'ultima vera guerra che c'è stata, quella del Golfo, non abbiamo saputo niente, non abbiamo visto nulla. Io sul Golfo non ci sarei andato, perché mi sarei ritrovato chiuso in un albergo con i militari americani che ogni giorno ti raccontavano un po' di balle sugli altri americani al fronte. Una idiozia» Però c'è stata la Bosnia, la Cecenia, la Somalia. «Ecco, ciucili sono conflitti locali, e lì puoi ancora buttarti in mezzo alla mischia, puoi raccontare ciò che vedi in presa diretta». Lei quante volte è stato dentro alla mischia? «Ah, chi se lo ricorda! Sono stato con i finlandesi dietro alle linee russe, c'ero solo io con questi finlandesi che non parlavano neanche se gli sparavi Sono sta- to, nel 1941, su fronte jugoslavo quando la Jugoslavia entrò in guerra. Ero in Albania e feci il coglione di buttarmi dietro alle linee pensando che alla peggio mi avrebbero fatto prigioniero». E' la volta che in Italia fu dato per morto? «E mi diedero pure una medaglia d'argento alla memoria, salvo poi revocarmela quando gli italiani mi ritrovarono tre giorni dopo». Poi è stato a Budapest, nel '56. «E mi ricordo di un operatore Rai eccezionale, Vittorio Mangili, l'inviato più coraggioso che abbia mai conosciuto. Uno che si buttava proprio in bocca agli spari». Invece saltò il Vietnam. «Lì per il Corriere c'era Egisto Corradi, il maestro di tutti gli inviati di guerra, il più bravo di tutti, uno che perfino i reporter americani trattavano con deferenza. Bastava dire: questo l'ha scritto Corradi, che tutti prendevano appunti, perché era sempre e solo la verità». E' per scrivere la verità che si va in guerra? «Per scrivere la verità possibile, i dettagli, le cose piccole, quelle che puoi controllare. Una guerra si racconta così». A Mogadiscio, Palmisano è morto perché senza saperlo si era infilato in una faida di scorte... «Quando arrivi in zona di guerra sei appeso a un filo. Non sai mai se stai in un luogo sicuro oppure no. Non sai se hai accanto un nemico o un amico. Non sai mai di chi fidarti. Però stai lì perché quello è il tuo posto per guardare, scrivere, sperare». Sperare cosa? «Che il buon Dio non si distragga troppo». Pino Corrias

Luoghi citati: Albania, Budapest, Cecenia, Italia, Jugoslavia, Mogadiscio, Somalia, Vietnam