«Come topi in trappola»

«Come topi in trappola» «Come topi in trappola» L'inviata racconta: diluvio di fuoco MOGADISCIO. Carmen Lasorella è ospitata nella sede del Cefa, Consorzio europeo di formazione agraria, in un quartiere nella zona meridionale di Mogadiscio dove sono sistemati anche gli uffici della Fao. Una zona sufficientemente protetta: quel settore è controllato dai miliziani del generale Aidid, che sinora hanno garantito la sicurezza degli operatori di queste organizzazioni umanitarie. Raggiunta per telefono satellitare, Lasorella ha raccontato la sua terribile esperienza, come già, con notevole sangue freddo e dimostrando grande professionalità, aveva fatto in diretta al tg2 di ieri sera. Un racconto agghiacciante: la giornalista ha visto morire il suo compagno accanto a lei, è sfuggita per miracolo alla pioggia di proiettili che cadeva tutto intorno. «Non mi sembra ancora vero che io sia qui sola e non ci sia Marcello»: sono state le sue prime parole. Poi un accenno fuggevole alle sue condizioni, «sto bene, soltanto qualche scottatura ad una gamba» e il racconto, il drammatico racconto di quei terribili momenti, quando attorno alla vettura su cui si trovava con Marcello Palmisano si è scatenato l'inferno. L'agguato. «E' avvenuto tutto molto in fretta. Noi uscivamo dalla zona protetta, la zona dell'aeroporto: Marcello, io, l'autista e due somali. Fuori ci aspettavano le nostre due tecniche di scorta con cannoncini e mitragliatrici e trenta uomini, quindici davanti e quindici dietro. Tutto è accaduto maledettamente all'improvviso. Lungo la strada, a neanche 250 metri dal compound dell'Onu, improvvisamente un'altra tecnica con sopra un cannoncino e molti uomini armati ci ha tagliato la strada. Altre due tecniche sono sopraggiunte, da destra e da sinistra. In quel momento il nostro autista ha cominciato a inveire contro questa gente, chiedendo di passare. Tra l'altro era molto pericoloso perchè noi eravamo disarmati, le nostre due tecniche avevano perso il contatto con noi. Sotto la minaccia delle armi, il nostro autista ha insistito perché potessimo passare. Ha fatto un tentativo con la macchina e una dello tecniche ci è venuta addosso. A quel punto eravamo proprio fisicamente bloccati. Qui è avvenuta una cosa strana. L'autista è sceso, al suo posto è salito un altro autista che ha tentato di nuovo di forzare il blocco. E poi la situazione è precipitata. Sono partiti dei colpi, hanno centrato le gomme della nostra Land Cruiser e con molta fatica sono riusciti a spostarla da un lato, mentre noi naturalmente restavamo a bordo». Il diluvio di fuoco. «Ci siamo resi conto che non era uno scherzo ma una situazione davvero drammatica. A quel punto è cominciata una pioggia di fuoco, letteralmente. Sono partite raffiche da tutte le direzioni: nel frattempo erano sopraggiunte altre tecniche, io ne ho contate nove ma credo che ce ne fossero anche di più. Hanno cominciato a sparare non solo con i fucili mitragliatori, ma pure con i cannoncini. Ho sentito anche esplodere qualche bomba. Palmisano ed io siamo rimasti nella macchina, lui si è appiattito sul sedile posteriore, io mi sono infilata sotto il cruscotto». Topi in trappola. «Ci sentivamo proprio dei topi in trappola. Hanno sparato tanto, sentivo i proiettili che rimbalzavano sulla carrozzeria e sentivo anche le bombe che cadevano intorno. Una di queste bombe ha colpito una tecnica che è esplosa ed è scoppiato un incendio. La nostra scorta si era dileguata. Forse per proteggerci da terra, non lo so. Fatto sta che noi eravamo soli in macchina. Eravamo lì, silenziosi. Sentivo Marcello che respirava. A un certo punto il suo respiro si è fatto affannoso. Ho pensato che avesse paura, era assolutamente normale che fosse così. E allora non gli ho detto niente perchè avevo paura anch'io e non volevo comunicargli anche la mia paura. Sono rimasta in silenzio aspettando che quel suo affanno passasse». La morte dell'operatore. «Ho capito soltanto dopo che non era l'affanno, che Marcello era stato colpito. L'ho capito quando anche la nostra macchina ha preso fuoco. In un battibaleno. In un momento la fiamme si sono propagate a tutta la macchina. Allora ho urlato a Marcello che dovevamo scendere anche se continuavano a sparare, perchè rischiavamo di saltare in aria. L'ho scosso, ho urlato ma non mi ha risposto. L'ho sollevato e ho visto che era pieno di sangue. Allora ho sentito il polso e niente, non ho sentito niente. La macchina era avvolta dalle fiamme, lo sportello dal mio lato era bloccato, sono uscita dall'altro, anche se era proprio sul fronte della strada, da dove arrivavano i colpi. Mi sono appiattita. Ho corso quanto più velocemente potessi e ho sentito i colpi intorno. Non mi hanno colpita. Sono finita dietro un cumulo di pietre. C'era un morto vicino. Altri tre poco lontano». La rapina. «Appena hanno finito di sparare c'era fumo dappertut- to. Sono sbucati dei somali che mi hanno afferrato, mi hanno derubato di tutto quello che avevo, mi hanno spintonato e mi hanno portato via. Io ho urlato disperatamente che c'era ancora una persona in macchina, che la tirassero fuori. Loro se ne sono infischiati. Mi hanno detto: no, tanto è morto. Mi hanno portato via, mi insultavano, mi minacciavano, mi hanno trasferito in un giardinetto circondato da mura. Lì si è accesa una discussione: alcuni volevano sequestrarmi, altri dicevano che mi dovevano lasciar fuori, che dovevano rilasciarmi. Poi mi hanno trasferito su un'altra macchina e mi hanno portata in un altra posto. Ho temuto veramente di essere rapita, invece poi nel giro di un'ora tutto si è risolto». La guerra delle banane. «Si è trattato di un agguato, era tutto preparato, c'ora una regia e alla luce delle notizie e delle voci che circolano a Mogadiscio pare che nella guerra, che non è mai finita, in questo clima di nuovo acceso, violentissimo, por la partenza dogli ultimi Caschi blu, si inserisca anche la cosiddetta guerra delle banane. Io ero su una macchina della Somalfruit, una compagnia che da anni commercia le banane verso l'Italia e dall'altra parte c'è una società americana che fa una guerra commercialo- guerra commerciale che qui a Mogadiscio diventa vera e propria guerra. Tra i nostri assalitori sarebbero stati riconosciuti somali che lavorano per questa società americana». Il miracolo. «La Somalia è da sempre un paese a rischio. Sembra che non accada nulla, poi scoppia l'inferno, e subito dopo ritorna la quiete. Esattamente quello che è capitato a noi. Io con Marcello ho lavorato tante volte, era un compagno che non si tirava mai indietro con grande senso di responsabilità e anche passione per questo lavoro in cui metteva tutto se stesso. Quando mi sono resa conto che era morto, per me è stato veramente un momento drammatico perché non immaginavo, nonostante la situazione così a rischio, dalla quale sono veramente uscita viva per miracolo, ancora mi stupisco come possa essere ancora viva, che potesse finire così. Eravamo soli, lui è stato colpito, io in quel momento... Marcello era partito con grande entusiasmo, come sempre. Stamattina avevamo lavorato con serenità: tra l'altro faceva un gran caldo, Marcello era tutto sudato. Abbiamo persino misurato la temperatura con un termometro: eravamo a 52 gradi». [f. f.l Umì hanno rapita e tenuta prigioniera per un'ora Credevo volessero ammazzare anche me y j u Il veicolo bruciava Ho urlato a Marcello di correre via ma lui non rispondeva più ■■

Persone citate: Aidid, Carmen Lasorella, Land, Lasorella, Marcello Palmisano, Palmisano

Luoghi citati: Italia, Mogadiscio, Somalia