La caccia agli italiani colonialisti del pizzo

La caccia agli italiani colonialisti del pizzo La caccia agli italiani colonialisti del pizzo UNA LUNGA VENDETTA CHISSÀ' se sulla telecamera di Michele Palmisano c'era l'adesivo con su scritto «Rai»: a scatenare l'agguato sarebbe bastato anche un simile dettaglio. Chissà quanta gente, fra i rottami di vecchi «caccia» che all'aeroporto di Mogadiscio circondano l'unico hangar rimasto, ha visto arrivare i dodici uomini della scorta, ha chiesto loro da chi erano stati ingaggiati, ha saputo che da Nairobi stavano per arrivare due giornalisti. Anzi, duo italiani. Italiani: i peggiori nemici della peggioro fra le fazioni in lotta (quella del generale Aidid) e da tempo i bianchi più odiati di tutta la Somalia. Lo eravamo anche duo anni fa, nei giorni dell'indimenticabile «sbarco dei cameramen». Ricordate? Sul bagnasciuga un muro di obiettivi puntati come bocche da fuoco, ad immortalare lo sbarco vero, oppure già grottescamente finto dei «marinos». Dappertutto guerrieri coi mitra a tracolla che fraternizzavano coi locali. Eppure in quei giorni bastava rinunciare alla scorta e salire su uno dei nostri camion militari, in cerca di un'erronea sensazione di sicurezza, per cogliere subito l'atmosfera che ci circondava. Quella marea di spettri, quel popolo di sopravvissuti attaccato come una colonia di mitili alle mura devastato del centro, pareva ritrovare vigore solo al passaggio degli automezzi col tricolore. Si alzavano magari zoppicando, inseguivano i camion, lanciavano rifiuti, gridavano: «'Taliani, cornuti, mafiosi, pillittori». Non si trattava di ironia, dote che peraltro ai somali non manca. Davvero poca di quella gente sapeva che Pillitteri era stato l'ultimo «'taliano» ad occuparsi per conto del psi della Somalia di Siad Barre: tutti gli altri erano convinti di lanciare un insulto. E non ci volle molto, poi, a capire che quella non era tanto un'aggettivazicne impropria quanto una cruda oggettivazione della realtà. Cornuti, mafiosi, eccetera: ma poi anche tangentisti, profittatori, trafficanti d'armi, gente che dà con una mano per prendere con l'altra. Ecco la nostra immagine in Somalia qual era, e qual ò: e non per la memoria lunga di chi è vissuto ai tempi delle colonie o dell'amministrazione fiduciaria. No: questo ò un patrimonio che siano riusciti a mettere assieme tutto negli ultimi quindici anni. Solo adesso il discorso sembra emergere con chiarezza, eppure gli elementi per proporlo esiste- vano già all'indomani degli assassini di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin. Facciamoci caso: nell'operazione che un genio dello sberleffo aveva battezzato «Restore Hope» fino ad oggi sono morti otto giornalisti: tranne nel caso di Jean Claude Jumel, francese, ucciso dalla pallottola di un cecchino, tutti sono stati vittime di reazioni popolari ad atti di guerra. Tutti, tranne gli italiani. Solo ai nostri è accaduto di essere inseguiti, circondati e giustiziati con colpi a bruciapelo, come è stato per Ilaria e Hrovatin. Solo i nostri paiono meritevoli di agguati in grande stile, come quello che ieri ha coinvolto Michele Palmisano e Carmen Lasorella. E ancora: solo ai nostri soldati (in particolare a Giorgio Righetti e Rossano Visioli, assassinati il 3 agosto di due anni fa) è accaduto di essere presi di mira durante un innocente «footing» sulle banchine del porto. Solo a una nostra crocerossina (Maria Cristina Luinetti) di essere accoltellata. Ieri sera, confusa com'era dopo aver appena visto uccidere il collega, Carmen Lasorella aveva già chiaro un dettaglio: la «Land Rover» su cui lei e l'operatore si trovavano aveva sulle portiere i simboli della «Somalfruit». Con la «Somalfruit» lavoravano anche gli uomini della scorta, una volta tanto davvero nutrita. Dietro la «Somalfruit» da sempre si muovono gli ultimi operatori italiani che ancora sperano di fare affari con la Somalia. Dall'altra parte ci sono gli americani della «Dole». In quel che resta dell'economia somala non può esistere altra risorsa: fra chi lavora per un'organizzazione e chi per l'altra, la lotta commerciale si è tramutata da tempo in scontro armato. Se è vero che anche nelle tragedie, a volte, può annidarsi il paradosso, Carmen Lasorella ed il suo operatore potrebbero aver pagato anche le colpe di un altro. Chiunque sia stato a Mogadiscio sa quanto peso abbia avuto nell'immagine dell'Italia l'imprenditore Giancarlo Marocchino, col suo piccolo esercito privato. Spesso, nei precedenti servizi a Mogadiscio, proprio a Marocchino la giornalista si era affidata, per ospitalità e contatti. In qualche modo potrebbe essere stata confusa con quel «'taliano» e i suoi traffici. Ma questo, forse, lo si scoprirà più avanti. Piuttosto: c'è ancora qualcuno che abbia voglia di scoprire grazie a quali inconfessabili segreti, a causa di quali misteri in Somalia noi siamo ormai dei «pillitteri» da uccidere, terrorizzare, mandar via ad ogni costo? Giuseppe Zaccaria cr CARMEN IASOREL1A E MARCELLO PALMISANO ARRIVANO A MOGADISCIO CON UN VOLO DA NAIROBI. SI DIRIGONO IN CITTA' SCORTATI DA DUE CAMIONETTE CON TRENTA UOMINI _ ORE 16.00: VENGONO ATTACCATI AL 4° KM DELLA STRADA CHE PORTA IN CENTRO DA COMMANDOS DI GUERRIGLIERI SOMALI CHE BLOCCANO LA STRADA E COMINCIANO A SPARARE LA JEEP SULLA QUALE VIAGGIANO PRENDE FUOCO sono I COLPI DEGÙ ASSAUTORI. CARMEN LASORELLA RIESCE A METTERSI AL RIPARO, MARCELLO PALMISANO VIENE COLPITO E MUORE LA GIORNALISTA E' SEQUESTRATA DAGLI AGGRESSORI PER CIRCA UN'ORA. VIENE POI UBERATA E SCORTATA DAGLI STESSI SEQUESTRATORI NELLA SEDE DELLA CEFA, DOVE SI TROVA TUTTORA