Re Lear impazzisce nel Novecento di Masolino D'amico

Re Lear impazzisce nel Novecento Ha debuttato a Roma l'atteso Shakespeare diretto da Luca Ronconi con le scene di Gae Aulenti Re Lear impazzisce nel Novecento 77 punto forte è V interpretazione di De Francovich ROMA. Si racconta che dopo un «Macbeth» particolarmente impegnativo Oscar Wilde disse al grande attore Herbert BeerbohmTree: «Niente male, vecchio mio. Divertente senza essere volgare». Rischio un «understatement» del genere se definisco l'attesissimo «Re Lear» di Ronconi «soltanto» robusto, affidabile, chiaro? E' comunque tutte queste cose, ed è anche, se non per un punto di cui dirò, ampiamente prevedibile, Shakespeare come ormai lo si fa, con ottimi motivi, in tutto il mondo, scena più o meno fissa, costumi vagamente contemporanei con qualche spiazzamento, buon ritmo (sì, sì: 280' compreso un intervallo di 30'), grandi corse, e ironia con punte di grottesco al posto della Poesia traguardo massimo di una volta. L'ambiente, di Gae Aulenti, è una scatola dalle pareti di lamiera ondulata nelle quali si aprono incessantemente porte irregolari, anche a saracinesca e a ponte levatoio: isolabile mediante un grande muro sempre ferrigno e con altre porte, che funge da siparietto. Questo luogo freddo e neutro può essere movimentato, mettiamo con un'apparizione di manichini di cavalli, o di un albero inclinato all'indietro, di una jeep spinta a mano; e all'inizio, quando Lear divide il regno, nonché alla fine, prima della battaglia, il pavimento si solleva irregolarmente come spinto da un lento terremoto subito rientrato. Per la maggior parte del tempo però il vasto spazio è vuoto e abbastanza inospitale. Le varie porte creano un effetto quando sbattono mosse dal vento della tempesta, ma di solito servono solo ad essere attraversate da gente che gioca a rimpiattino; e quando si tratta di creare raccoglimento il compito ricade sulle luci di Sergio Rossi, che lo trovano arduo nella sequenza del rifugio durante il temporale. I costumi, di Rudy Sabounghi, sono vagamente primonovecenteschi, con gli uomini per lo più in nero (ma le giacche sono portate senza camicia, sul torso nudo) e le donne in lungo (bei colori bruciati), ma poi corazze per la guerra, quando Cordelia torna armata come Giovanna d'Arce. Gloucester accecato ha la tuba e sul viso un velo nero come il pastore di un celebre racconto di Hawthorne; il sadico Cornovaglia, quanno ce vo' ce vo', è in tenuta nazi, con capelli rasati e stivali. Spesso l'abito caratterizza subito i personaggi. Così il bastardo Edmund, un Kim Rossi Stuart festeggiato con gridolini dalle fans, è un flessuoso inglesino di Carnaby Street, in velluto nero da chitarrista e caschetto di capelloni, capriccioso e malignetto più che malvagio. Il fedele conte di Kent (il solido Massimo De Rossi) è prima di radersi una fotocopia di Edgardo Sogno, con baffi e fluenti chiome argentee. L'eccellente Massimo Popolizio parte con occhialetti e abito marrone da intellettualino innocente e astratto, e finisce seminudo nonché atletico, in mutandoni sporchi da rugbista, avendo sperimentato una metamorfosi che qui non viene troppo approfondita. Nella chiave fluida e un po' riduttiva della lettura è importante la nuova traduzione di Cesare Garboli, offerta limpidamente all'ascolto. Ogni traduzione comporta delle rinunce; questa punta sul nitore e sulla scorrevolezza. Il primo è ottenuto a spese dell'ambiguità e del mistero che come si sa permeano l'impervio testo. La seconda è affidata a un endecasillabo molto pedestre, che talvolta consente soluzioni ingegnose («più vittima di colpe che colpevole») ma spesso non si distingue dalla prosa («se li vedo arrivare a casa mia»), per ottenere il quale si sacrificano immagini gonfie di fantasia barocca. Ho anticipato qualcuno dei numerosi interpreti, tutti in fonna. Le figlie di Lear sono Delia Boccardo, più malinconica che sensuale, Sabina Capucci più isterica che cattiva, e l'algida Galatea Ranzi, che deve la sua qualità di extraterrestre anche all'essere, quasi unica in questo cast, fedele fino in fondo alla dizione non realistica di scuola ronconiana. Luciano Virgilio è un Gloucester dolce e accorato; Luigi Diberti, un angosciato Albany; Riccardo Bmi, un ghignante Cornovaglia; Gian Paolo Poddighe, un attempato re di Francia (una delle poche no¬ vità: Cordelia sembra amare il giovane e attraente Borgogna di Massimiliano Alocco, che si rivela per un cacciatore di dote); Corrado Pani, un Matto sgualcito e affettuoso, condannato a dire sempre la verità. Tutto questo sarebbe routine, buonissima routine, intendiamoci, da teatro di repertorio quale lo Stabile di Roma potrebbe ben proporsi di diventare, se non lo ponesse più in alto la prestazione di Massimo De Francovich, che dà di Lear una lettura non convenzionale e essai suggestiva. Vecchietto asciutto e stizzoso, il suo re diventa progressivamente un dialettico articolato, dalla pazzia ragionata e non titanica come nella tradizione; non gigante orbato, ma uomo che comincia a vedere solo quando gli si fonde il cervello. Le sue tirate, porte con modernissima grazia, leggerezza e intelligenza critica, sono il punto forte della serata, trionfalmente applaudita all'anteprima. Repliche fino al 5 marzo. Masolino d'Amico Stile «europeo»: il grottesco prende il posto della poesia Un momento del «Re Lear» di Ronconi in scena a Roma. Nella foto qui accanto il regista

Luoghi citati: Albany, Francia, Roma