ORE CONTATE «Economisti contro la disoccupazione: non basterà ridurre i tempi di lavoro»

ORE CONTATE ORE CONTATE Economisti contro la disoccupazione: non basterà ridurre i tempi di lavoro so, gli amministratori di case. Una strada diversa, una volta inquadrato il fenonteno della crescita economica che non riesce più a creare come un tempo un numero sufficiente di posti di lavoro, consiste invece nel rompersi il capo per inventare rimedi atti ad evitare che simili divaricazioni creino esclusioni e conflitti sociali potenzialmente gravi. Il libro di Ugolini I tempi del lavoro è un'utile rassegna delle tante differenti proposte, ma anche dei tentativi concreti che si sono susseguiti negli ultimi anni, un po' in tutti i Paesi europei, per riportare in equilibrio il rapporto tra crescita economica, tecnologia ed occupazione. Molte sono varianti sul tema ormai antico del «lavorare meno per lavorare tutti»: uno slogan del massimalismo sindacale post-sessantottino, che ora perfino grandi aziende roccaforti delle associazioni industriali nazionali pregano i sindacati di considerare la miglior soluzione possibile per uscire dalla crisi, o per non entrarvi. Come nel caso della Volkswagen, una soluzione forse irripetibile altrove, ma comunque di grande effetto e portata; dove non solo è stato ridotto l'orario medio di lavoro settimanale da 36 a 28,8 ore (e chi non sarebbe d'accordo?), ma sono stati anche ridotti i salari a livello annuale dell'I 1-12 per cento - un taglio sostanzioso accettato dai lavoratori dopo appena due settimane di trattativa. Ma dinanzi all'irrompere delle nuove tecnologie e di modelli profondamente innovativi di organizzazione aziendale una riduzione generalizzata degli orari, ammesso che sia possibile, può non bastare, né per le ORMAI lo han capito tutti. La ripresa economica, nelle condizioni in cui oggi si verifica, non genera più nuova occupazione, in nessun Paese europeo. Nel migliore dei casi riporta l'occupazione ai livelli precedenti alla crisi. Per creare un numero apprezzabile di nuovi posti di lavoro - diciamo due o trecentomila l'anno essa dovrebbe corrispondere ad un aumento del Pil, il prodotto interno lordo, dell'ordine del 56 per cento l'anno per più anni; un tasso di crescita semplicemente irraggiungibile per i Paesi industriali avanzati. Qualcosa si è spezzato nel rapporto tra tecnologia, mercati ed occupazione, che pure fu positivo per intere generazioni, e ricostruirlo sarà un compito terribilmente arduo, per decenni a venire. Dinanzi alla scoperta della «crescita senza occupazione» si possono imboccare varie strade. Una è quella onirico-utopica che consiste pressappoco nel dire che quanto sta succedendo in tema di tecnologia, lavoro e occupazione, a ben guardare, ci sta portando verso il migliore dei mondi possibili, giacché in esso ciascuno dispone di dosi crescenti di beni e servizi lavorando sempre meno, anzi quasi niente. Basta un piccolo sforzo di adattamento della propria ottica per rendersene conto. E' la strada imboccata da De Masi, le cui dieci tesi, sintetizzate all'inizio del saggio Sviluppo senza lavoro e poi riscritte e commentate per esteso nel seguito, si possono ulteriormente condensare, a beneficio del lettore ansioso di scoprire che la disoccupazione è tutto il contrario di quel che sembra, nel primo paragrafo della prima tesi, e nell'ultimo della decima. Dice il primo: «Il progresso umano è null'altro che (l'enfasi è mia: ho archivi pieni di null'altro che, sovente dimostratisi di lì a poco sinonimi di tutt'altro da) un lungo itinerario dell'uomo verso l'intenzionale liberazione dalla fatica fisica prima e dalla fatica intellettuale poi». Mentre l'ultimo dei due suona: «All'interno della società, la preparazione professionale al lavoro creativo deve essere integrata con la preparazione professionale all'ozio attivo, in vista di un sistema fatto prevalentemente di "nuovi disoccupati", cioè di liberati dalla schiavitù del lavoro».

Persone citate: De Masi, Ugolini I