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MANAGER DIVORA SCRITTORE MANAGER DIVORA SCRITTORE Ultimo dialogo tra Leonetti e Volponi: le colpe dell'industria culturale TORINO FRANCESCO Leonetti parla di Volponi come se non fosse morto in estate. Dice: Paolo pensa, Paolo afferma. Non per una questione sentimentale, ma perché l'oggetto della nostra conversazione è lo «Struzzo» einaudiano dedicato a un dialogo tra i due scrittori nell'inverno del 1994: Il leone e la volpe (pp. 193, L. 18.000, in libreria da lunedì). Quindi dell'autore di Memoriale e Corporale si parla al presente per la precisa ragione che è il coautore del libro, sulla copertina del quale i due vecchi amici si guardano attorno perplessi, ritagliati da una foto d'archivio dentro un vuoto bianco. «E' come se si fosse annullata la profondità del mondo», dice Volponi in una battuta del dialogo. La precisione dell'hic et nunc è ciò che contraddistingue Francesco Leonetti, settantanni, come Volponi, una bella faccia alla Buster Keaton, animatore di riviste, da Officina ad Alfabeta, poeta e narratore di taglio sperimentalista (tra le opere ricordiamo Conoscenza per errore e Campo di battaglia), docente di estetica all'Accademia di Brera. Quando parla sembra posseduto da quel disgusto della molle parola, che ti casca di bocca, che spaventava Calvino: vi reagisce con risposte come didascalie, precise ed essenziali, diresti machiavelliane, tenuto conto che il titolo del libro allude a una celebre citazione del Principe, benché diventi anche un divertissement sui nomi dei coautori. Dice Volponi: «Noi due, onestamente, siamo scrittori di sinistra». Che cosa significa scrittori di sinistra? «Tutti e due, Paolo ed io, ci siamo sempre sentiti, anche nell'invenzione letteraria, dentro il grande filone resistenziale di idee, di dibattito, di posizioni politiche, di capacità di mettersi in gioco continuamente, che si chiama comunemente cultura di sinistra». Siete dunque letterati schierati? «Noi abbiamo avuto una concezione del rapporto fra letteratura e idee nient'affatto scontata. Non la letteratura schierata. Semmai Vittorini. O Gadda. La ricerca, per Engels, procede sempre per conto proprio. E' stato Lukacs a stabilire le connessioni, ma Lukacs a noi non è mai piaciuto. Nella nostra concezione s'incontrano piuttosto teorici come Bloch o Benjamin, che non hanno mai avuto rapporti col neorealismo. Tuttavia, prendere posizione, espressione di Benjamin, diventa fondamentale in una fase in cui nessuno prende più posizione». Ancora Volponi: «La sinistra non ha più una cultura di sinistra». Voi siete dei sopravvissuti o superstiti? «No. Il fatto che ci sia un maggior numero di altri che si considerano privi di impegni etici o politici non vuol dire che la tendenza non possa essere difesa o protratta. Noi continuiamo una tendenza di ricerca nella conoscenza ed espressione, che è già stata di Fortini e di Pasolini. Essa si muove unitamente a una scelta di campo politico, pur mantenendo una sua spregiudicatezza». Ma siete rimasti soli? «No. Anche nel libro citiamo altri come noi. Scrittori coetanei, da Sanguineti a Pagliarani, o giovani come Umberto Lacatena, pubblicato su Campo, e Luigi Di Ruscio, che vive a Oslo. Oltre, natural¬ Leonetti e Volponi. Einaudipubblica i loro dialoghi su Irltemlura e politica: «11. leone e la volpe» mente, a diversi poeti». Angelo Guglielmi ha denunciato una scissione fra sinistra politica e sinistra culturale: ha ragione o torto? «Non ha tutti i torti. Va riconosciuto che Angelo Guglielmi negli Anni Sessanta è stato uno dei teorici più innovatori nel campo della letteratura. Anche noi lo siamo stati, Paolo ed io. Con Fortini e Pasolini. Ma dopo di noi anche Guglielmi, Balestrini, Arbasino, Giuliani. Poi devo dire che tra lo sperimentalismo teorizzato e svolto da Pasolini, da Volponi e da me e il filone dell'avanguardia ci sono importanti differenze interne di riferimenti e scelte, però è vero che nella cultura del Novecento occorre riferirsi alle Avanguardie. All'Espressionismo della Voce, natural¬ mente al Surrealismo. A poeti come Eliot o Dylan Thomas. A Breton o Leiris. La cultura di sinistra ufficiale e "neorealista" ha invece rigettato queste avanguardie. Finendo dove? A Lampedusa e al Gattopardo. Su tutto ciò Guglielmi ha ragione». Il vostro libro attacca pesantemente l'industria culturale. Secondo Volponi troppi scrittori oggi vogliono «un padrone forte». Ma l'industria culturale è veramente perniciosa? Che cosa vi scandalizza? / «La situazione è così grave che la dizione di industria culturale che viene da Adorno, dalla Dialettica dell'Illuminismo, non è neanche più una dizione corrente, come osserva anche a quelle che fioriscono oltre oceano, che mi sembrano delle vere e proprie mistificazioni. Oggi poi gli stili più manieristici nascono da una precisa motivazione sociale. I poeti si sono sempre più ibernati e allontanati da uno stretto rapporto con la società, con la realtà in cui vivono. Questo distacco favorisce anche gli atteggiamenti snobistici come quello di Conte». I manuali non servono a molto. Della poesia si possono comunicare le tecniche - è l'opinione di Cesare Segre - ma poi ogni poeta risponde a una spinta personale e individuale. «Questo di Conte mi appare più che come un manuale un manifesto di una sua concezione poetica. Una concezione mitica che vede l'umanità salvata dalla poesia. Certo, Conte è molto ottimista. E non credo che la sua opinione sia condivisa da molti altri poeti». Mirella Seni lo studioso americano Frederic Jameson, il quale parla di "colonizzazione dell'espressione" e di "materializzazione della frase", nel senso che i condizionamenti intervengono addirittura sulla struttura della frase. Il peggioramento è dovuto alla scomparsa dei direttori di collane editoriali che vengono dall'università o dalla letteratura. Non ci sono più non solo i Vittorini e i Calvino ma neanche gli Asor Rosa o i del Buono. Oggi ci sono i manager che ti chiedono, per prima cosa, quanto venderai». Ma i manager possono cambiare la letteratura? «Sì. L'avvento dei manager ha cambiato il modo di strutturare la narrativa. Dal personaggio come una funzione della narrazione si è passati al personaggio in carne e ossa, che si comporta come il protagonista d'un film. In Gadda o Vittorini tutti i personaggi sono funzioni. Adesso invece il personaggio è qualcuno che si vede, che si tocca. Che esce dall'alloggio, sale in automobile, entra in ufficio. Come se una volta si fosse scritto: "La marchesa uscì di casa alle cinque". Perché adesso bisogna essere chiari e banali. Un romanzo oggi deve essere soltanto una storia, mentre la narrazione, come dice Paolo, è la storia più le situazioni». Anche voi, come Guglielmi, date un giudizio negativo sulla nuova narrativa italiana? «La narrativa italiana è totalmente debole. I nuovi narratori li consideriamo inutili, con pochissime eccezioni: direi qualcosa di Tondelli e i primi libri di Tabucchi, a parte i citati Lacatena, Di Ruscio e altri rari. Per il resto soltanto libri di consumo». Lei dice: ((Abbiamo, come intellettuali della sinistra, un sacco di colpe». Ma poi aggiunge che in vecchiaia si tende a pensare di aver sbagliato tutto ((e non è affatto giusto». Dunque l'autocritica la fa o non la fa? «Uno sente di essersi battuto con estrema limpidezza. Non sente colpe personali, tranne gli errori di gioventù. Ma uno condivide la responsabilità collettiva per il degrado segnato dalla circolazione delle idee. Forse non abbiamo fatto abbastanza. Tra l'88 e l'89 anche Paolo ed io siamo stati vittime di un senso di crollo. Noi non abbiamo commesso imprecisioni, ma è vero che facciamo parte di un contesto che ha lasciato perdere». Siete rimasti dei vecchi comunisti? «No. Siamo dei giovani comunisti. Si è arrivati al punto che comunista è un insulto come negro o drogato. Bene: io sono negro, drogato e comunista».

Luoghi citati: Lampedusa, Oslo, Torino