il palco magico

« « La spettatrice» di Paola Capriolo: 1 sguardo di Medusa sulla vita di un attore PAOLA Capriolo con «Vissi d'amore» ci aveva dato una elegante prosecuzione, un inquietante scandaglio, nel libretto della «Tosca» pucciniana; con «La spettatrice» si lascia sedurre dal teatro ili prosa, dal mondo e riagli emblemi del palcoscenico, nell'eco appena suggerito di un testo ben più sull'ureo, il «Don Giovanni» di Molière. Non c'è nel libro una battuta di dialogo, la scrittrice riferisce e riflette sui fatti raccontati, secondo la sua propensione all'irrealtà quotidiana sottoposta a una accanita analisi di ordine filosoficomorale. 11 suo intento ò di sottoporre «la realtà stessa al processo di purificazione richiesto dalla fantasia, tanto piii rigorosa, tanto più esigente in fatto di essenzialità e coerenza...». L'adempimento e una prosa costretta a difendersi talvolta, nel libro che leggiamo, da un eccesso di castigatezza, di grigiore espressivo. L'idea centrale e piii seducente è quella di uno sguardo che, da un palco di proscenio, non concede tregua al giovane attore Vulpius. Chi sarà mai la donna dal volto sfuggente, stilizzata dall'abito nero senza ornamenti e dai lunghi capelli, dalli! labbra senza sorriso? Scene di un misterioso, osili mio cortemamenU) nel IeaIrò dell)nuore * * Vulpius, dapprima incuriosito, poi lusingato da una possibile conquista amorosa - un varco al dongiovannismo indossa per l'occasione i panni di Sganarello. Ma a poco a poco, mentre pronuncia le consuete parole, si accorge di recitare una seconda parte destinata soltanto alla spettatrice sconosciuta. Cerca si di scoprire il suo nome e le sue fattezze, di farla rientrare nell'ordinarietà. Quando l'assedio si fa più stringente, la donna scompare, lascia soltanto come memento, sulla poltroncina di velluto, un orologio che, per quanto ricaricato, si arresta sempre sulla stessa ora. Talismano di un tempo immobile. Un muto linguaggio Vulpius è rimasto contagiato da quel muto linguaggio. Non gli basta più la frequentazione della compagnia di attori, del piccolo falansterio che si appaga di mediocri successi in una città di provincia, del conforto garantito di una buona tavola. E neanche si acquieta nel letto della ingenua e vitale AEst, a Est. 11 treno sbuffa, Berlino è ormai lontana e sul finestrino leggermente opaco scorrono boschi, campi, mandrie. Oche bianche e vecchie stazioni grigie. Una fila di donne con sottane multicolori s'inerpica per un sentiero. Qua e là cartelli in una lingua sconosciuta che mette addosso imbarazzo, eccitazione. E' questa la Polonia? D'ora in poi chi viene da lontano come lo scrittore Alfred Doblin (1878-1957) sarà sordo e muto: straniero fra suoni gorgoglianti e oscuri. Tanto meglio per gli occhi che si rimpinzano d'immagini e non sono mai sazi. Nel bel mezzo di Varsavia ecco splendide fanciulle polacche incipriate e truccate. Scivolano via leggere da ristoranti e pasticcerie. Sfilano davanti a vetrine luminose. Quasi una parala di divinità scese un attimo dal cielo per quel turista di riguardo che è Alfred Doblin, autore del più famoso romanzo metropolitano tedesco Berlin Alexanderplatz (1929). l'o:, come in un vecchio diorama, un miscuglio singolare, sul viale Cracovia: ricchi borghesi e nobili, ufficiali e studenti, monaci e vecchi ebrei col caffetano, contadini e mendicanti, carrozze e carri. Gente appesa ai tram, o che insegue vetture. Il ritmo lento, solenne d'un funerale con banda musicale. E sullo sfondo, la sagoma enorme di una chiesa russa, una creatura di pietra, una fortezza, un grumo d'Asia. Qui occidente e oriente si toccano. S'incrociano etnie, lingue, costumi; cunvivono religioni. E' un quadro di Chagall, uno schizzo di Grosz o una tela di Otto Dix? E' il lapis di Doblin che insegue i contorni della realtà, il suo occhio prodigioso perfezionatosi alla scuola del dinamismo e della simultaneità futuriste. E' la mano di uno dei massimi (e più discontinui) scrittori del Novecento, che nel lontano autunno del 1924 giunge in Polonia per un viaggio di due mesi. S'è lasciato alle spalle per qualche tempo moglie figli e amanti, lo studio di neurologo a Berlino, un romanzo fantascientifico apparso in gennaio. Il suo editore, Samuel Fischer, ebreo come lui, gli ha sovvenzionato il viaggio. Doblin ha promesso di mandare articoli alla Vossischc Zeitung ma ecco che, cammin facendo, Je sue annotazioni s'infittiscono, curiosità Dora, che pure rappresenta il suo superstite legame con le persone e le cose. Il romanzo registra, come un termometro freddo, le lente fasi della «malattia» fredda di Vulpius. Si astrae dal pubblico e dai commedianti, si impone una recitazione consapevole e straniata, come se si esibisse per lo spazio vuoto lasciato dalla donna in nero. Sganarello sembra impossessato dall'oltranza di Don Giovanni, dove l'iniziale pulsione erotica ha ceduto però al richiamo «ateistico» e nichilistico: la spettatrice sostituita infine - in que- mondo; l'aria che mi sfreccerà davanti, sarà quella di ogni altro luogo, di Mosca, di New York, dell'Indostan, di Berlino, e noi uomini veniamo dagli stessi genitori». Doblin non smentisce mai la sua fama di epico, di grande fabulatore di vicende collettive e di moderno interprete, attraverso il montaggio, della realtà contemporanea, come dimostrano anche saggi e riflessioni teoriche che il Mulino pubblica, a cura di Giulia Cantarutti, con il titolo Scrìtti berlinesi. E' la voce collettiva, che affascina e frastorna in Viaggio in Polonia. E' il senso della massa, l'incombere di folle. Al mercato rionale come davanti all'abitazione di un rabbi, nel tramestio del ghetto come nell'ora della preghiera in sinagoga. Gente che s'accalca alle stazioni e masse di oggetti che straripano. Un mondo in fibrillazione, in costante osmosi. Non basta un flash sulla Vistola ghiacciala o un paesaggio di neve a Zakopane per abbassare la temperatura del diario di viaggio. Rimane alta, perché insaziabile è la passione umana di Doblin, tutta dentro la realtà, mai calata in formule. Restano infiniti particolari, sagome, volti, situazioni che compongono la seducente coralità di questo libro. Una storia anche attraversata da ventate di ironia e da qualche splendida gag: come il tentativo di Doblin di lasciare l'albergo di Cracovia senza soccombere al diktat delle mance. Ma soprattutto, al di là delle annotazioni storiche o degli spunti politici, per nulla secondari, esso resta un racconto intessuto di gesti, di esili e intensissimi richiami. Il canto di un rabbi, ad esempio, la cui melodia s'inabissa in elementi primordiali o la folla di donne distese sulle tombe che gridano e piangono, chiamano, placano i morti. Voci e anime che il lettore insegue, a distanza infinita, ma per un attimo così ossessivamente vicine. Luigi Forte Alfred Doblin Scritti berlinesi a cura di Giulia Cantarutti Il Mulino, pp. 243. L 20.000 Alfred Doblin Viaggio in Polonia trad di C. Vernaschi e H. Fischer Bollati Boringhieri. pp. 295. L. 35.000 sta vicenda di scambi e metamorfosi - dalla botola che trascina nell'abisso. Con un intermezzo che denuncia tuttavia, se appena resistesse in lui una minima istanza etica, la sua colpa. Manda infatti in avanscoperta, quasi sua discepola riluttante, l'ignara Dora, che ama i lustrini, i carillon, gli alberi di Natale. La sera, al termine dello spettacolo, è costretta a esibirsi nel teatro deserto, avvicendando battute, trucchi e costumi. Mentre Vulpius, azionando i riflettori e le luci di scena, sottolinea e cancella le sue effimere apparizio¬