E il genio argentino conquistò Parigi di Sergio Trombetta

Incontro con Arias: dopo le Folies-Bergère, a giugno alla Scala Incontro con Arias: dopo le Folies-Bergère, a giugno alla Scala E il genio argentino conquistò Parigi DTORINO ALLE Folies-Bergère alla Scala, passando per il Regio di Torino: un triplo salto 1 mortale artistico. Cioè dalle donne nude di Fous de Folies, che in dodici mesi nella sala parigina di rue Bergère ha totalizzato 300 mila spettatori, al gioco degli equivoci amorosi del Sogno di una notte di mezza estate di Britten che è andato in scena con straordinario successo martedì scorso al Teatro Regio (repliche stasera, il 3, 5, 7 febbraio), per arrivare al delirio dei Racconti di Hoffmann di Offenbach che debutteranno alla Scala il 26 giugno. Per Alfredo Arias, regista argentino, ma parigino da oltre venti anni, non è di sicuro una difficoltà lo scarto vertiginoso di generi, abituato com'è a mettere in scena con uguale successo la Tempesta di Shakespeare, Girotondo di Schnitzler, i testi di Marivaux o una sgangherata e amatissima rivista come Mortadeìa che in Francia ha avuto due anni di repliche, 460 rappresentazioni e sempre il tutto esaurito. Con il suo spettacolo Fous de Folie le Folies-Bergère hanno riaperto dopo un lungo periodo di crisi. «Il mio compito era di cambiarne l'immagine. La direzione aveva deciso di mutare la formula di commercializzazione del teatro. Non volevano più essere il cabaret per turisti. Intendevano rivolgersi al pubblico parigino». Dal varietà a Shakespeare che fa da libretto a quest'opera di Britten. Ma sono mondi completamente diversi. «Mi piace il varietà. Ci sono gli universi fastosi della letteratura e dell'arte, il teatro letterario legato al verbo nei suoi aspetti più straordinari. Ma ci sono anche tutti questi strumenti di sogno creati per poter aprire uno spazio sull'illusione, sul divertimento, un mondo in cui manca l'autore paludato, ma c'è l'uomo che ha fabbricato, mescolato materie diverse. E un modo di procedere che mi fa un po' pensare alle sculture di Marcel Duchamp, all'arte surrealista che va verso il sogno: il music hall ne fa certamente parte. Alle Folies era successo che invece di continuare a fabbricare queste macchine surreali che creano sogni, gli spettacoli si erano bloccati su un binario morto ripetitivo. Ma la rivista è un genere di spettacolo che non è morto. Basta trovare le persone disposte a farlo rivivere». Nessun complesso di inferiorità dunque? «Credo che occorra avere l'audacia del gesto, muovere qualche cosa nella cultura. Rifiuto l'idea della profondità ad ogni costo. Si può arrivare alla profondità attraverso le strade sue proprie, ma si può anche affrontare altri cammini; per esempio quello del teatro leggero. E' un esercizio di equilibrismo che mi sono permesso nella mia vita e che mi fa pensare, se posso permettermi, a Cocteau». Lei fa parte di quella ondata di artisti argentini che ha conquistato la Francia durante gli Anni 60 quando in Argentina erano al potere i militari. Oltre a lei c'erano i registi George Lavelli, Jerome Savary, lo scrittore Copi. «Lavelli, Victor Garcia - un altro regista che non bisogna dimenticare e Copi appartengono a questa generazione. Io sono approdato a Parigi alla fine di quel decennio. Copi è stato il tramite fra me e il pubblico francese quando mi chiese di mettere in scena la sua pièce Eva Peron. Il pubblico ha imparato a conoscermi attraverso l'opera di Copi che tutti amavano come geniale disegnatore. Allora Copi era già acclamato per le sue strip della «Don¬ na seduta» sul Nouvel Observateur. Rimetteva in questione le possibilità narrative del fumetto. Introduceva il tempo del pensiero: c'erano riquadri vuoti in cui la Donna seduta taceva e rifletteva sulla domanda che le era stata posta. Rispondeva soltanto alcuni riquadri dopo. Questo divertiva e entusiasmava il pubblico. Anche Lavelli era già considerato un grande regista quando sono arrivato a Parigi. Così per Victor Garcia che in quegli anni lavorava moltissimo con Nuria Esperi in Spagna, una collaborazione che ha occupato tutti gli ultimi anni della sua vita. Pure Savary era molto amico di Copi. Ma ho difficoltà a riconoscere in Jerome il coté oscuro, ispanico che c'è nel lavoro di Lavelli, oppure lo strazio che c'era nell'opera di Copi o di Garcia». Dunque non c'era un'intesa, un mondo comune fra voi, questa esplosione di creati¬ vità argentina in Francia è stata più casuale? «Eravamo, e siamo tutti persone isolate. Gli artisti quando sono perseguitati dalle proprie ossessioni non hanno il tempo di frequentare gente che ha altre ossessioni. E' vero che l'ambiente era creato dalla presenza di Copi e forse dalla tradizionale disponibilità di Parigi ad accettare gli stranieri. E' un lusso della cultura francese potersi permettere questa accoglienza verso gli artisti che vengono da fuori. E non è soltanto un fatto istituzionale, anche se la Francia ha spesso dato cariche ufficiali a stranieri. E' qualche cosa di più profondo. Quando preparavo Mortadeìa gli amici argentini di Parigi mi dicevano: "I francesi non capiranno nulla di questa storia sull'Argentina della tua giovinezza". E invece il pubblico l'ha accettata molto bene. Credo che tutto derivi dal bisogno di viaggio e esotismo proprio della cultura francese». C'entra il mondo della rivista con il Sogno di una notte di mezza estate di Britten? «Ci sono lavori che, sento, fanno parte del mio destino. Per me era essenziale incominciare il rapporto con Shakespeare attraverso la Tempesta. E il secondo approccio doveva essere proprio il Sogno. Il lavoro musicale di Britten è molto interessante rispetto alla drammaturgia. Posso saltare dalle Folies a Shakespeare. Non mi offende passare per regista leggero, perché considero miei maestri i grandidi ieri come Lubitsch o Cukor». Perché ha deciso di ambientare l'opera all'Hotel Grande Bretagne nella Atene degli Anni 30? «Ho cercato di riportare lo spettacolo a una cultura che non l'osse in contraddizione con il testo. Quando si affronta un lavoro che ha talmente tanta storia alle spalle come il Sogno, o si opta per l'astrazione totale oppure si sceglie la storia, la sua presenza, la sua ricostruzione con diversi gradi di realismo. Ho deciso di rifarmi a cose care della mia vita, che mi avevano toccato. Si trattava allora di ricreare una certa Atene, l'Hotel in cui ero stato, i parchi in cui avevo passeggiato, la pittura di Tsaroukis o la poesia di Kavafis. Ecco, Kavafis e Tsaroukis sono quelli che meglio con le loro opere mi hanno spiegato la Grecia. Mi sono rifatto a tutto questo e, in parte, alla commedia sofisticata di Lubitsch. Non credo al cambio d'epoca fine a se stesso nelle messe in scena. Quando lo faccio è perché cerco una poesia, un'emozione. Il Grande Bretagne ò un luogo magico, è la mia foresta, il mio labirinto, il limite fra realtà e sogno». Come imposterà invece i Racconti di Hoffmann alla Scala? «Li sto ancora elaborando. Sono partito da un progetto di astrazione totale: tutto nasceva in una sala prove a vista del pubblico. Ora sto cercando di entrare nel fantasmagorico, veder come posso ricreare lo spirito fantastico, il coté etilico di Hoffman. Sarà tutto giocato sulla feerie, sull'illusione, su una forma di espressionismo lirico. Con questo lavoro Offenbach, alla fine della sua vita, voleva entrare in un mondo completamente misterioso in cui c'era un dramma molto forte, c'erano le donne vittime della morte o della magia. Legare i Racconti al mondo dell'operetta sarebbe contraddire Offenbach. Ha voluto fare un gesto grandioso per affermare: "Anche io sono capace di realizzare un grande lavoro". I Racconti sono una sorta di testamento che illumina diversamente tutto il suo lavoro. Qualche cosa come fu Gente di Dublino per John Huston». Sergio Trombetta «La Francia ci amò perché "esotici" assecondando le nostre ossessioni» ultura Scala A sinistra, Alfredo Arias A destra, Offenbach che Arias allestirà alla Scala Mart A sinistra, Alfredo Arias A destra, Offenbach che Arias allestirà alla Scala