«A Auschwitz si piange ancora» di Emanuele Novazio

«A Auschwitz si piange ancora» Walesa inserisce all'ultimo momento gli ebrei nel suo discorso, sfiorato l'incidente «A Auschwitz si piange ancora» Sedici capi di Stato applaudono il Nobel Wiesel AUSCHWITZ DAL NOSTRO INVIATO Parla co.i sofferenza, Lcch Walesa. Parla tossendo davanti alle baracche del blocco numero 11, il primo dove i nazisti sperimentarono il gas. Parla, e in molti si guardano e aspettano: sanno che le cerimonie di oggi dipendono da quel che il presidente polacco dirà mentre il vento torna a soffiare su Auschwitz. Parla, Walesa: «La distanza che insieme abbiamo percorso ci ha portato fino a questa fabbrica di morte», dice. «Un viaggio simbolico lungo la strada dove si e sviluppata la sofferenza di molte nazioni, e in particolare della nazione ebraica». Soltanto all'ultimo, soltanto alla fine di una notte difficile. Soltanto dopo una trattativa con il Premio Nobel Eli Wiesel che minacciava di manifestare in pubblico una «delusione profonda» - soltanto dopo il riconoscimento, nel Appello alle nazioni del mondo, che «il massacro è avvenuto in territorio polacco ma non per mano di polacchi»: soltanto allora Walesa ha citato anche gli ebrei, nel breve discorso ufficiale di ieri mattina. Nel testo ufficiale non c'era neanche un accenno all'Olocausto: davanti al blocco della morte, invece, Walesa lo ha fatto, salvando d'un soffio le cerimonie per i 50 anni della liberazione del Lager. Anche alla vigilia, parlando all'Università di Cracovia per celebrare i professori cattolici vittime della brutalità nazista, il presidente polacco aveva taciuto sul genocidio del popolo ebreo. Neanche una parola, un silenzio che aveva sollevato la protesta delle delegazioni invitate alle cerimonie di ieri e fatto infuriare Eli Wiesel. E' difficile dare una spiegazione, trovare la chiave di una mancanza di sensibilità che ha rischialo di trasformare le celebrazioni di Auschwitz in una plateale occasione di disagio collettivo e ha coperto di un'ombra inquietante, di un dubbio, il presidente polacco. Semmai qualcuno riguarderà in futuro a queste giornate di Auschwitz, dovrà dimenticare Walesa e ricordare la grandezza profetica di Eli Wiesel. E' Wiesel con la sua terribile domanda al «Dio che non c'era» mentre i nazisti uccidevano migliaia di bambini, a segnare l'incontro dei sopravvissuti con Auschwitz. E' Wie¬ sel con il suo discorso di ieri nel campo, con il suo monito che «non tutte le vittime erano ebree ma tutti gli ebrei erano vittime»; con un'altra domanda tremenda, «qual è la lezione?», e una risposta di conciliazione e speranza, «la lezione è non cedere all'odio, e combattere il fanatismo, la violenza e il terrore», a sollevare un'ondata di emozione profonda. E' la sua disperata certezza che «ci dovrà essere un futuro», la voglia che «per la generazione futura il mio passato non diventi il futuro», a sostenere la memoria di chi è tornato per celebrare e per ricordare. Ieri mattina, mentre gli altoparlanti diffondevano tra le baracche le parole di Wiesel, la neve ha ripreso a cadere, il vento a soffiare gelido e a folate improvvise: il grande camminamento centrale del lager si è coperto di fango e di pozze, costringendo la gente a camminare più curva per difendersi dalla tempesta, costringendo a trattenere il respiro, costringendo a chiedersi come è stato possibile per vecchi e bambini, per gente malata, costretta all'appello ogni mattina dalle 4 e per ore costretta a lavori sfibranti. E da queste baracche e sotto questa tempesta che una voce scandisce un lungo elenco di nomi, i morti di Auschwitz. E' da queste baracche e sotto questa tempesta improvvisa che il pri¬ mo deportato polacco, Wladyslaw Bartoszewski, legge l'Appello alle nazioni del mondo firmato dai rappresentanti di 24 Paesi e da 10 Nobel per la pace non senza polemiche, non senza patteggiamenti. E' dal campo che più di ogni altro rappresenta la sofferenza e la morte, che si condanna «il più grande crimine mai commesso nella storia, un crimine che doveva portare alla soluzione finale, un crimine contro gli ebrei e principalmente contro gli ebrei ma anche contro altri popoli». E' di qui, mentre migliaia di lumini sfidano il vento e la neve lungo le rotaie dove entravano i vagoni piombati, che il mondo assicura di volersi impegnare: «L'eredità delle persone che qui sono morte deve consolidare la fede in un futuro senza mai più razzismo, senza più odio, senza antisemitismo». E' qui che si az¬ zarda una speranza («dovremo trovare strumenti per garantire una soluzione pacifica di tutti i conflitti») e che si fa una promessa: «Il genocidio non sarà dimenticato quali che siano i luoghi, quali che siano i tempi, quali gli autori». E' una promessa che andrà ripercorsa, ma per due giorni il campo è stalo soprattutto una porta dischiusa sul buio, una voragine, un luogo sospeso. Ha detto ieri Eli Wiesel: «Chiudete gli occhi e vedrete quanto hanno visto i nostri occhi. Processioni senza fine convergevano qui di notte, qui era sempre notte. Chiudete gli occhi e ascoltate le grida silenziose che terrorizzavano le madri, ascoltate le preghiere angosciate dei vecchi e delle donne. Chiudete gli occhi e ascoltate il pianto dei bambini». Emanuele Novazio -sì ili ; , || S La cerimonia di Auschwitz Da sinistra a destra la regina Beatrice d'Olanda il ministro francese Simone Weil, il presidente tedesco Roman Herzog, quello polacco Lech Walesa e il Nobel Elie Wiesel

Luoghi citati: Auschwitz