«Non parlate con gli assassini»

«E' una crisi culturale che ci ha resi deboli e incerti» «Non parlate con gli assassini» Said Sadi: così cresce il partito dell'odio IL LEADER DEMOCRATICO CE' una cosa che il dialogo romano tra dirigenti islamisti e alcuni dirigenti dell'opposizione ha eluso, in maniera grave: l'esistenza in Algeria di due progetti di società antitetici, tra i quali non può esistere dialogo. Uno è appoggiato dall'Internazionale islamica rivoluzionaria, l'altro concretizza, con più o mono successo, le diverse lotte sostenute dagli algerini da mezzo secolo. L'Algeria ha conosciuto, dall'interruzione del processo elettorale del dicembre 1991, i più importanti sconvolgimenti dalla sua indipendenza. Nella bufera di violenza, il Paese ha dovuto rinnovare i punti di riferimento, infrangere i tabù, e da questa crisi è emersa una nuova classe politica, proveniente dalla generazione del dopoguerra e nella quale la donna riveste un ruolo determinante. Questa forza si batte contro l'islamismo e non si sente rappresentata dal dialogo-sottomissione di Roma. L'algerino sa che è grazie a lei che il Paese, sia pure traballante, si regge ancora in piedi. E' una forza che poggia su due fattori. Primo: le convinzioni laiche e repubblicane, che la differenziano dalle feudalità sulle quali il vecchio corpo politico (sia regime che opposizione) ha costruito il suo potere. Secondo: la sua non-compromissiono con il regime. Questa popolazione rappresenta oggi l'ultima speranza, l'alternativa di un rinnovamento contro il regime e l'islamo-populismo. L'Algeria che si esprime attraverso questa generazione e l'Algeria che pensa, che cammina. E' lei che scuote le istituzioni civili e militari, che anima la sfera economica, la vita sindacale, il formidabile movimento femminile, la stampa indipendente. E' lei alla base delle massicce manifestazioni popolari degli ultimi tre anni. Proiettata nella politica in questo periodo di regressione sociale, ha dovuto battersi contro il regime, contenere l'integralismo occupandone gli spazi, e far sentire la propria voce nei media confiscati dal potere o sottomessi al fascino della guerra d'indipendenza, mito poco sentito in un Paese dove il 70% della popolazione ha meno di trent'anni. Si e detto che l'integralismo era fatale: l'indipendenza politica acquisita nel 1962 sarebbe portata a termine dall'avvento di uno Stato islamico, ultimo atto della costruzione nazionale. Per i democratici algerini, imbavagliati ovunque, è stato necessario demolire questa teoria: l'integralismo in Algeria non viene dalla società ma dalle istituzioni (scuole, media, giustizia, moschea). Il culto è sempre stato separato dalla gestione dello Stato. Fino ad oggi, lo sceicco del villaggio, autorità religiosa, non si è mai immischiato nella politica. La laicità ò un fatto millenario in Algeria, e l'integraliismo non è iscritto nella sua cultura popolare. Esprime uno scontento precedente l'islamismo politico che si è limitato a sfruttarlo. Se fosse sopravvenuta negli Anni 70, l'attuale crisi sarebbe stata sfruttata dall'estrema sinistra, e l'Algeria avrebbe avuto il suo «Sentiero Luminoso». Non esiste infine il personale teocratico in grado di gestire uno Stato islamico: i ceti medi non hanno nulla a che fare con il bazar iraniano, con il mercato devoto a Khomeini. In Algeria, i ceti medi sono all'avanguardia della lotta democratica. Se un regime integralista prendesse il potere, il Paese scivolerebbe nella «somalizzazione», nella lotta dei clan. L'integralismo ò come la morte, la si vive una volta sola. I democratici hanno dovuto spiegare, ed ò stato lungo e difficile, che «dialogo» per gli integralisti significa la resa dell'altro. Hanno dovuto battersi affinché la delegittimazione di un regime corrotto non comportasse la valorizzazione dell'integralismo, e la lotta contro questa nuova forma di fascismo non significasse un sostegno del regime. L'incontro di Roma, congiunzione dei populismi algerini, testimonia della crisi della vecchia élite. Le risoluzioni sono generiche e subordinate alla legge islamica. Le proposte si limitano a deplorare la violenza eludendo la sua unica causa: l'islamismo politico. Cosi, i dibattiti di Roma non si saranno discostati dall'antico costume del movimento nazionale algerino, che occulta la relazione causa-effetto. Prima dell'indipendenza, il discorso si limitava a mobilitare contro il colonizzatore, l'infedele, il borghese. Non appena conquistata la liberazione, nel 1962, gli scontri violenti che avevano già come protagonisti gli attori di Roma testimoniavano che essere contro non basta; bisogna anche determinare l'obiettivo della lotta. Il risultato più visibile di questa riunione è la rianimazione, sulla scena internazionale, di un movi¬ mento terrorista nel momento in cui è squalificato politicamente in Algeria e malridotto militarmente. Ai sognatori che coltivano l'utopia di una dissoluzione dell'integralismo nella democrazia, basti ricordare le parole di Ali Benhadj, dirigente del Fis: «Non c'è democrazia perché l'unica fonte di potere è Allah e il Corano, e non il popolo. Se il popolo vota contro la legge di Dio, questo non è che una bestemmia. In tal caso, bisogna uccidere i miscredenti». Certo, abbiamo già sentito degli integralisti che riconoscono il pluralismo, l'alternanza, ma a patto che ogni impegno resti iscritto nella sharia, la legge coranica. Roma non è sfuggita a questo diktat. Alcuni riducono la crisi algerina a un conflitto tra «riconciliatori» e «sradicatori»: la soluzione si riassumerebbe alla gestione del conflitto in sé. Tuttavia, le due opzioni sono molto più vicine di quel che sembri: gli «sradicatori» nel governo vogliono estirpare il terrorismo ma senza rinnegare l'integralismo, mentre i «riconciliatori» cercano un compromesso con l'integralismo. Le due posizioni convergono sul campo di battaglia. Fino ad oggi, nessun notabile del regime o dell'integralismo è stato colpito. Che siano poliziotti, militari, studenti, disoccupati, giornalisti, donne, le vittime che cadono quotidianamente a decine sono fuori dalle gerarchie. Di fronte al vicolo cieco dell'Fln e all'avventura integralista, l'Algeria moderna si batte per un progetto di società patriottica, laica e repubblicana, elaborato in una lotta venticinquennale. La lotta delle donne, la resistenza dei Canili, la battaglia per i diritti dell'Uomo e la libertà sindacale sono stati i suoi punti forti. Il presidente Boudiaf vi si è riconosciuto, conferendole legittimità. Ha pagato con la morte. Numerose sono le battaglie che oggi raccolgono consenso. La battaglia sociale esige che i giovani, parzialmente sedotti dall'integralismo, abbiano diritto alla solidarietà nazionale. Non è reprimendoli nei quartieri popolari e riabilitando al contempo quelli che li hanno trascinati nella violenza, che si risolverà la questione del terrorismo integralista. L'estremismo religioso è una forma di fascismo, si combatte, non ci si dialoga. Ma soprattutto, il destino algerino passa per l'uguaglianza dei sessi e l'abrogazione del Codice della famiglia. La lotta delle donne ha generato una mutazione rivoluzionaria che è alla base della futura democrazia algerina. Per quel che riguarda l'educazione, la constatazione è unanime: la scuola algerina è malata. Per esempio, l'arabizzazione, l'insegnamento esclusivo dell'arabo, è servita solo a una strategia di presa del potere da parte di una minoranza arabo-islamista. Il presidente Boudiaf parlava di «catastrofe della scuola algerina». La scuola ha fabbricato il militante, ma ha ucciso il cittadino, e, in particolare, il cittadino che parlava più lingue. La tendenza mondiale è favorevole a un'estensione dell'insegnamento delle lingue, mentre l'Algeria mutila se stessa privandosi di una lingua - il francese - tramandatagli dalla propria Storia e strumento necessario del proprio sviluppo. E' accogliendo altre lingue che l'arabo sfuggirà alla funzione vergognosa di strumento d'invettiva, di pigrizia intellettuale e d'intolleranza nelle quali è imprigionato. Anche per questo, la lingua tamazight (berbero) deve cessare di essere ostracizzata. Ma è soprattutto essenziale la battaglia della cultura. E' il deserto culturale che ha fatto credere a migliaia di algerini nell'iscrizione miracolosa ài Allah akbar nel cielo di uno stadio di Algeri dove era stato proiettato un ologramma del Fis. E' il deficit culturale che ha reso l'Algeria mediterranea un Paese triste, violento e astioso. Restano le istituzioni: la lotta contro la corruzione, che condiziona la credibilità dell'Algeria futura, e la lotta contro la confusione tra Stato e potere, che ha permesso al potere di usare lo Stato per controllare la società. Una lotta che presuppone l'emendamento della Costituzione del 1989, residuo del fallito partito unico: la confusione tra poteri temporale e spirituale è il nodo gordiano dell'attuale crisi. La Costituzione futura deve preservare lo Stato da qualsiasi manipolazione religiosa che voglia confiscare la politica. L'identità algerina non si fonda su un'unica cultura, ma sulla triade berbero-arabo-islamica. In Algeria, realizzare il consenso mobilitando il cittadino presuppone una rottura, perché l'islamismo politico ha canalizzato lo smarrimento nato dalla sconfitta del regime. Queste proposte affrontano le cause della violenza che insanguina il Paese ridando anzitutto speranza ai giovani. Ci vorrà del tempo, ma non abbiamo altre soluzioni. Al contrario, cercare un dialogo con gli integralisti presenta due rischi. Ammesso che si raggiunga un compromesso accettabile, nulla garantisce che il dialogo abbia un impatto significativo sul terrorismo islamico. Questo senza tener conto delle violazioni degli impegni che si autorizzano gli integralisti una volta al potere. Quindi, l'effetto paradossale di questa linea sarebbe una cauzione di rispettabilità concessa a una corrente sempre più rigettata dalla popolazione che attraverso le sue estorsioni scopre la sua vera natura. Il risultato sarebbe allora di contribuire a perennizzare l'islamismo politico, a far perdurare una violenza che gli è intrinseca. L'alternativa sta nel raggruppamento delle forze democratiche che si battono nel proprio Paese. Sono loro che pagano il prezzo del fallimento del regime e subiscono la violenza integralista. E' grazie a loro se l'Algeria esiste ancora. Sta a loro organizzarsi meglio. La tragedia che si abbatte sull'Algeria, malgrado tutto, ha avuto il merito di rivelare che la prospettiva democratica è una speranza largamente condivisa. Said Sadi Segretario Generale dell'Unione per la Cultura e la Democrazia «E' una crisi culturale che ci ha resi deboli e incerti» «La laicità è un fatto millenario Lo Sceicco non ha mai fatto politica» «La speranza è il coraggio della gente mai compromessa» Qui a sinistra una manifestazione di militanti laici algerini contro l'integralismo Sopra, un poliziotto delle squadre speciali a caccia di fondamentalisti

Persone citate: Ali Benhadj, Boudiaf, Khomeini, Said