Rauti è la mia ultima cavalcata di Fabio Martini

Rauti; è la mia ultima cavalcata Rauti; è la mia ultima cavalcata «Ora comanda gente che non ha storia» IL «GRAMSCI NERO» AROMA 69 anni Pino Rauti è tornato in un sottoscala. In una gelida stanzetta sotto il livello della strada, al quartiere Prati, il «Gramsci nero» fa le ultime telefonate per un congresso «già perso» e che lui stesso chiama «la mia ultima cavalcata». Nessuno, come lui, ha infiammato intere generazioni di ragazzi fascisti; pochi come lui hanno la memoria e il senso di quello che finirà venerdì 27 gennaio all'ultimo congresso dell'msi. Rauti, l'msi - caso unico - è stato guidato per 45 anni, e fino a tre anni fa, da uomini che si sono formati nel primissimo dopoguerra. Torniamo a quei giorni che seguono il crollo del fascismo, con voi sbandati e l'msi appena nato. Il sentimento di quei giorni ve lo siete portato dietro per 45 anni? «Sì, è proprio così. Partiamo dall'estate del 1945: in Italia ci sono 800 mila reduci della Repubblica Sociale, un milione e mezzo di epurati, le famiglie di decine di migliaia di morti, i ricercati. Tre milioni di persone molto chiuse in se stesse per necessità di sopravvivenza». Lei ha 18 anni, come se la passa? «Mio padre, epurato, era stato funzionario al ministero dell'Aeronautica ed era costretto a fare la guardia notturna». Su un ragazzo come lei, che effetto fece piazzale Loreto? «Un senso di orrore. Ma non di indignazione. Sapevamo che chi perde paga. Avendo sparato, combattuto e ucciso, pensavamo che fosse logico che capitasse altrettanto ai perdenti. Mussolini aveva concluso il suo ciclo. Semmai...». Semmai? «Semmai un certo fascino la ebbe la fine di Hitler, più da tramonto deg.'i dei: scomparire nel gran rogo di Berlino! Ci affascinava quella sorta di Internazionale dell'ultimo sacrificio: i giovani francesi della Charles Magne e i danesi della Viking erano stati gli ultimi a difendere la Cancelleria di Berlino e a morire lì». In preda a queste sinistre suggestioni, molti di voi finiscono in carcere... «C'era una singolare osmosi tra i 30 mila prigionieri politici e i giovani, come me, che facevano avanti indietro tra le stesse galere. Ma allora nelle prigioni si poteva leggere e studiare. Io per esempio mi sono laureato in carcere. Mi facevo chiudere, perché le celle erano aperte e nel quarto braccio impazzava Romualdi, che era stato il vicesegretario del partito fascista repubblicano...». Che combinava? «Romualdi aveva organizzato un faraonico torneo di bridge, ma con una difficoltà tremenda. Ogni tanto qualcuno usciva e allora Romualdi si arrabbiava: camerati, qui dentro c'è troppa mobilità! Capisce? Lui che aveva parecchi anni da scontare, "pretendeva" che restassimo in galera per finire il torneo! Allora scoprii che a Regina Coeli c'era una grande biblioteca politica: per tradizione ogni ondata di detenuti, prima gli antifascisti e poi i fascisti, non portava via i libri. E fu lì che io scoprii Evola». Un personaggio molto controverso che, grazie a lei, ebbe una grande influenza su generazioni di giovani fascisti, vero? «Si immagini che, una volta usciti dal carcere, organizzammo una rievocazione: credevamo che fosse morto! Quando sapemmo che era paralizzato, ma vivo, andammo da lui. Personaggio molto freddo, lontano. Ma con lui avemmo un incontro straordinario». Al di fuori della politica, che vita facevate? Che rapporti avevano i giovani fascisti con le ragazze? «Nessuno ci ha mai badato, ma il 90 per cento dei nostri matrimoni erano fatti con gente dello stesso ambiente. Io sposai una ragazza che era figlia di uno che aveva fatto la marcia su Roma, tutte le guerre, la Repubblica Sociale». Un circuito chiuso che è proseguito: 30 anni dopo, anche Fini, Gasparri, molti dei nuovi dirigenti si sono sposati con ragazze missine... «Certo, allora come più di recen¬ te, era difficile che uno di noi sposasse una comunista. Non per niente, perché non la bazzicava proprio. E questo ha ancora più saldato e isolato. Siamo vissuti sotto ima campana di vetro». E come vi guadagnavate la vita? «Almirante faceva il piazzista, io vendevo rubinetteria in un sottoscala di piazzale Vittorio. Poi ci mettemmo tutti a lavorare in una sala corse. Un lavoro straordinario: arrivavano i vetturini, gente sbrigativa che urlava: ahò, vojo la martingala! e tu dovevi scrivere in gran fretta». Una realtà cruda. «Sì una vita rozza, un po' picare¬ sca, ma fu grazie a questa vita che diventammo nazional-popolari, che consideriamo imprescindibile l'anima sociale». Lei non è mai stato amico di Almirante: un paragone con Fini? «Tra i due un abisso. Almirante leggeva, scriveva. Fini è nato nella direzione del partito e si è laureato a Bologna senza avere una noia. In un periodo in cui migliaia di nostri giovani non potevano andare a scuola. Evidentemente a Bologna non lo conosceva nessuno. Pensi che le mie fighe non si sono potute iscrivere all'università statale». Fabio Martini «Io ho pagato con il carcere e le mie figlie non hanno potuto iscriversi all'università» A sinistra: Pino Rauti leader dell'ala intransigente del msi A destra: Pino Romualdi

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