Sangue nel giorno di Auschwitz
Sangue nel giorno di Auschwitz Sangue nel giorno di Auschwitz La gente urla: non crediamo più ad Arafat IL DOLORE E LA MEMORIA ■GERUSALEMME giornali del mattino portavano in prima pagina le foto in bianco e nero dei bambini di Auschwitz, il braccio proteso a mostrare il numero tatuato, il volto ischeletrito dietro il filo spinato. Ieri infatti era il cinquantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa. L'anniversario dell'Olocausto. E mentre i lettori israeliani leggevano gli articoli di commemorazione, e da tutto il Paese gli autobus convogliavano i sopravvissuti per la cerimonia del ricordo al Museo dell'Olocausto Yad Va Shem, la radio cominciava a trasmettere le prime notizie sull'ennesima strage. Alla televisione le prime immagini del sangue sparso ovunque alla fermata dell'autobus dell'incrocio di Beit Lid, e la ricerca centimetro per centimetro da parte di uomini pii, ornati di riccioli laterali e con la kippa sulla testa, di ogni pezzetto di carne umana sparso sul terreno. Uomini che avanzano piano, con sacchetti di plastica in mano, gli occhi puntati sul terreno; che almeno i resti degli esseri umani assassinati non siano dispersi, travolti dalla folla, dalle ruote delle ambulanze che trasportano le decine di feriti, dalle auto della polizia. La radio e la televisione diventano una struttura di puro servizio. Nessun nome verrà detto prima che le famiglie siano avvertite, vengono trasmessi continuamente numeri telefonici dove si possono cercare notizie dei propri cari. La polizia, gli ospedali, gli uomini di Stato parlano in tono calmo alla popolazione, tutto suggerisce la solita idea: guai a cedere alle emozioni, guai ad abbandonarsi al panico, anche dopo una, due, tre stragi di popolazione inerme, che aspetta l'autobus. Anche a quella fermata c'erano tanti ragazzi di leva, diciottenni che tornavano all'esercito dopo l'intervallo di un sabato trascorso a casa. Calma; reciproco aiuto; eppure oggi l'anniversario dell'Olocausto suggerisce a volenti e nolenti il sentimento di una beffa della storia, della sofferenza senza fine. Non è un caso che, richiesto a caldo del suo pensiero, Yitzhak Rabin spieghi l'attentato dicendo che ciò che gli integralisti islamici cercano di fare è uccidere più ebrei possibile, e uccidere il processo di pace. La prima parte della frase ha un sapore escatologico, che si unisce quasi solo per caso alla situazione politica attuale. Scoppiano dimostrazioni a Gerusalemme e per tutto Israele. Il presidente Weizman dichiara inaspettatamente che bisogna ripensare tutto il processo di pace. Tra poche ore, ma non subito, sarà di nuovo chiaro al Paese che questo gesto inusitato, complicato, compiuto insieme da Hamas e dalla Jihad Islamica, è una risposta ancora una volta sprezzante agli sforzi di pace che proseguono nonostante tutto; all'incontro di tre giorni or sono tra Rabin e Yasser Arafat; al loro camminare sul filo teso; è una risata in faccia agli sforzi dei moderati palestinesi e del mondo arabo in generale. All'inizio, prima che la tessitura della pace riprenda, lo sgomento degli israeliani è quello di un popolo che non riesce a vincere la condanna storica dell'odio arabo, del sangue sparso indiscriminatamente per quanti sforzi possa fare. E il pensiero ieri è corso all'Olocausto, anche se Israele, come si vede dall'attuale politica del governo, ha fatto tanti sforzi per liberarsi da quella sindrome dell'accerchiamento che caratterizzò gli anni del governo del Likud, di Menahem Begin. Adesso il processo di pace è veramente in pericolo, non tanto nel rapporto con gli Stati arabi circostanti, quanto con i palesti- nesi. Rabin ha dichiarato che non si meraviglierebbe affatto se l'attentatore o gli attentatori (ancora non è chiaro se si tratti di uno o di due) si fossero preparati, addestrati, organizzati per questo attentato così ben coordinato, così strategico dal punto di vista della scelta logistica (un incrocio pieno di soldati che tornano a casa) nel Nord del West Bank, ovvero nei Territori Occu¬ pati. Questo significherebbe che ancora proprio nei Territori si trova il cuore del problema della sicurezza d'Israele, e che quindi lo spostamento dell'esercito e le elezioni, ovvero la realizzazione della seconda parte dell'accordo di Oslo, troveranno dubbiosi persino gli uomini che oggi fanno parte della coalizione governativa. Infatti, per esempio, Fuad Ben Elizer, ministro delle Co- La tv sovrappone i filmati dei lager allo strazio delle nuove vittime Sopra, scene di orrore a Beit Lid A fianco, il dolore di due soldatesse
Persone citate: Arafat, Fuad Ben Elizer, Menahem Begin, Rabin, Shem, Weizman, Yasser Arafat, Yitzhak Rabin
Luoghi citati: Gerusalemme, Hamas, Israele, Oslo
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