Addio al Fort Alamo ceceno
Addio al Fort Alamo ceceno Addio al Fort Alamo ceceno Ma al Cremlino è costato centinaia di vite IL SIMBOLO DELLA RIVOLTA PMOSCA ER il Cremlino la conquista del palazzo presidenziale di Dudaev era una questione di vita o di morte. E per espugnarlo era disposta a pagare qualsiasi prezzo. Semidistrutto dalle bombe, annerito dal fuoco degli incendi, con gli squarci nel cemento aperti dai missili e con i vetri rotti, rimaneva sempre il simbolo più importante della resistenza cecena. Neil linguaggio ufficiale del comando russo questo imponente palazzo di tipica architettura sovietica viene chiamato, con un certo disprezzo, «sede dell'ex comitato regionale del pcus», come a sottolineare che dopo i comunisti in Cecenia non c'era più stato un potere legittimo. Ma in realtà agli occhi di Mosca era diventato qualcosa di molto più importante. La sua presa doveva segnare la vittoria russa esattamente come la presa del Reichstag a Berlino. Il comando russo aveva deciso consapevolmente di imitare quell'impresa, al punto che per l'assalto all'ex residenza di Dudaev era stato scelto il trentatreesimo reggimento motorizzato, lo stesso al quale appartenevano i leggendari soldati Egorov e Kantaria, che cinquantanni fa avevano alzato la bandiera rossa sopra la capitale tedesca. Ma l'onore di issare la bandiera bianco-azzurro-rossa del¬ la nuova Russia è toccato ai soldati di un altro reggimento, numero 276, proveniente dagli Urali. Il suo comandante, colon¬ nello Serghej Bunin, ora potrà sperare in medaglie e promozioni per aver conquistato la tana dei «banditi». Ma da diverse settimane ormai il grigio edificio di undici piani aveva smesso di essere il centro del comando di Dudaev. I piani superiori erano stati abbattuti dalle bombe russe e quelli inferiori resi inabitabili dal vento gelido che spirava dalle finestre rotte e dall'incessante fuoco dei russi. Per difendersi gli abitanti del palazzo hanno bloccato l'entrata principale, lasciando aperta solo quella sul retro che conduce nel piano sotterraneo. La vita si era concentrata nel bun¬ ker, abbandonato dal generale Dudaev per un nascondiglio più sicuro. Nell'enorme e intricato groviglio di corridoi e stanze sotterranee si era installato un ospedale dove venivano portati i combattenti rimasti feriti, sia russi che ceceni. In una stanza dove l'accesso era riservato solo ai medici venivano curati i soldati prigionieri. In quell'ambiente umido e buio, illuminato solo dalla luco fioca delle lampadine alimentate da un diesel, venivano a ripararsi anche decine di civili che avevano perso la loro casa. Il bunker del palazzo presidenziale era l'unico posto di Grozny dove, grazie all'alimentazione autonoma, c'era ancora luce e calore. E fino agli ultimi giorni, quando il cibo ha cominciato a scarseggiare in tutta la capitale cecena, vi si trovava sempre da mangiare. I corridoi erano ingombri di scatolame, provviste, quarti di bue portati dai contadini dei villaggi, accanto a casse piene di munizioni. E c'era perfino una televisione a circuito chiuso che faceva vedere le immagini delle battaglie. Era un popolo strano quello del palazzo presidenziale: giovanissimi prigionieri russi, guerriglieri ceceni armati fino ai denti che si davano il cambio, donne che facevano litri di tè per tutti quelli che venivano li a scaldarsi, e perfino bambini. Gli abitanti del sottosuolo erano tanti, almeno un migliaio. Molti sono fuggiti quando ò diventato chiaro che la presenza dei civili non avrebbe fermato l'assalto, mettendosi in salvo attraverso due tunnel che - si dice - conducono oltre il fiume Sunzha. Ma, prima di andarsene, i difensori dell'edificio avrebbero minato i lunghi corridoi sotterranei. [a. z.] Qui a fianco il leader dei ribelli ceceni Dudaev Più a sinistra il presidente russo Eltsin
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