Coppi, il debito di Torino col campionissimo di Gian Paolo Ormezzano

Coppi, il debito di Torino col campionissimo Trentacinque anni fa la morte. Quell'incontro di Fausto, tifoso del Toro, con Mazzola al Filadelfia Coppi, il debito di Torino col campionissimo Nemmeno un fiore sulla lapide del fratello Serse in corso Casale TRA LIBRI E IL FILM RAI SONO passati trentacinque anni da che Coppi è morto, si annuncia a febbraio o marzo sulle reti Rai il grosso film faustiano, quello con Sergio Castellino e Ornella Muti, regia di Alberto Sironi; è uscito un nuovo libro sul Campionissimo, «Il grande airone» di Giancarlo Governi; è stato ripubblicato «Coppi e il diavolo» scritto nel 1981 da Gianni Brera. Più che di vita di un grande pedalatore, si parla di visita, tramite Coppi, al l'Italia dei suoi anni, quando lui pedalava e vinceva su un fondale di macerie, per conto di un Paese intero che «pedalava», per sopravvivere, per rivivere. Torino possiede, custodisce (dovrebbe custodire) una pietra importante nella storia di Fausto Coppi, la più importante per la sua vita affettiva di corridor ciclista: è la lapide che ricorda la morte al Giro del Piemonte di Serse Coppi, fratello oscuro ed amatissimo. Sta in corso Casale, dove la strada piega per puntare verso Sassi: dietro la lapide un distributore di benzina. Sulla pietra chiara sta scritto: «Per Serse Coppi il ricordo affettuoso e l'amaro rimpianto - 29 giugno 1951». Ieri la lapide non aveva neanche un fiore: strano, altre volte la vedemmo adornata, sia pure sobriamente, avaramente. Serse era caduto proprio lì sotto gli occhi di Fausto, vicinissimo il Motovelodromo (primo Bartali), sembrava niente, routine, alle 20,32 era morto per emorragia cerebrale. Era un venerdì, al mercoledì Fausto avrebbe preso il via di un tremendo Tour de France. La lapide senza fiori nei giorni dell'ennesimo revival di Fausto spinge a pensare cosa fu per Torino Coppi, piemontese di Castellania, provincia di Alessandria, dove era nato il 15 settembre del 1919. E naturalmente ci si trova insieme in debito e in credito. La città ciclistica di Coppi fu Milano (e a ruota Parigi), con il Vigorelli, i treni comodi per raggiungere tanti posti d'Europa, il mitico hotel Andreola, quello delle riunioni tattiche, e anche della Dama Bianca. Torino fu il Motovelodromo per le prime gare a inseguimento del dopoguerra: «Vedere Fausto ci dava i brividi», ricorda Enrico Peracino, che era giovane ciclista e sarebbe diventato, proprio con la Carpano Coppi, grande medico dei corridori. «Gli piaceva, quando i suoi impegni lo portavano qui, pedalare per la città e poi scalarsi qualche collina», ricorda Ruggero Radice, giornalista legatissimo al Campionissimo. Coppi tifava per il Torino, aveva la tessera di sostenitore. Ma era timido, Valentino Mazzola voleva che lui si recasse al Filadelfia, l'incontro ci fu ma senza rumori speciali. Quando alla fine del 1959 Fausto andrà a caccia in Alto Volta, era accompagnato da Cillario vicepresidente del club granata. La malaria scelse Fausto, che morì all'ospedale di Tortona la mattina del 2 gennaio 1960. Poca Torino ufficiale. Nino Defilippis, torinese, ciclista - il Cit - importante, ricorda però una lezione da Coppi, una lezione di chimica e di vita, in piemontese. Una riunione in pista a Parigi, Fausto prese delle pasti ghette, Nino gli chiese: «Ti aiuti per una garetta qui?». E lui: «Guarda quanta gente c'è, io credo che dobbiamo offrire tutto, noi piemontesi siamo fatti così». Gian Paolo Ormezzano Fausto Coppi Il fratello Serse era caduto proprio sotto i suoi occhi Sembrava una ferita lieve ma poi Serse morì per emorragia cerebrale