A MANHATTAN CON LA BIONDA di Lorenzo Mondo

IL CANTO DEL PESCATORE RISVEGLIA LE ANIME DI NIGRO IL CANTO DEL PESCATORE RISVEGLIA LE ANIME DI NIGRO «Dio di Levante», l'incerta navigazione tra sogno e realtà A MANHATTAN CON LA BIONDA Stead: un «amore» a caro prezzo NARRATORE di storie e di miti ispirati alla Lucania nativa, Raffaele Nigro, dopo uno sviamento nella contemporaneità, si riporta con un folto romanzo, Dio di Levante, alle origini della sua narrativa. Prova anzi a immergersi nell'origine stessa del raccontare, spostandosi appena, in una contiguità geografica e sentimentale, lungo la marina di Puglia. Già l'inizio del romanzo tende a immetterci in un'aria che, per essere densa di umori e colori terrestri, sembra conservare il respiro di una pitocca, degradata teogonia: «In principio fu il prurito e il prurito era presso il suo progenitore e questo progenitore era così piccolo che gli occhi faticavano a individuarlo...». Questa pruriginosa epidemia si accompagna alla fame, che azzanna Gervasio Pomponio Cantatore, la sua famiglia e il suo paese. Ma Pomponio, figlio di pescatori e per breve tempo monaco scapicollato, e posseduto da voci che lo spingono a cantare e a narrare con empito viscerale. Raccontare fa bene, è una specie di «bonaccia dell'anima», ma si rivela anche a poco a poco come una chiamata più alta, un compito di pietà e di giustizia. Quando in una notte di luna, sporgendosi dalla barca, vede passare sotto le acque dell'Adriatico il vascello dei morti, sulla prua il suo pallido fratello, capisce che il canto può dare vita a chi non c'è più, istituire una continuità con gli anni e le ere perdute. Come un dio creatore, il narratore nominando le cose le fa esistere. «Dentro il mio corpo si nascondeva tutto un teatro di pupi e marionette alla maniera in cui Rabelais rappresenta il corpo del gigante Pantagruele abitato da uomini alti come formiche?». La fantasia, sembra di capire, è potenziata dalla privazione, dalle pulsioni di una fisicità prepotente, dal gusto di una vita assaporata nella sua carnalità. Fin qui, a parte le coloriture iniziali, ci muoviamo nell'ambito del verosimile, per quanto stralunato dal ricorso a un linguaggio fortemente espressivo, di grande invenzione lessi- di maggior riguardo con la quale si illude di vivere scampoli di romanticismo. In realtà Grant è un retore, che ama sentirsi sproloquiare; così come si atteggia a uomo di sinistra e ad antifascista con amici che però poi sfrutta e opprime, egli invita ogni femmina che incontra nelle sue stanze per «un tè e quattro chiacchiere», le apre il suo cuore descrivendosi bisognoso di affetto e alla ricerca dell'anima gemella, e appena ottenuto il suo scopo sparisce per sempre. Con la biondina, che viene dell'Europa e ha un passato poco chiaro, Grant trova però pane per i suoi denti, ossia una femmina che senza mai sottometterglisi completamente riesce a fargli spendere grosse cifre. Durante i circa quattro anni coperti dal libro, la biondina si affaccia più volte nella vita di Grant, che pur deciso a non andare fino in fondo con lei, ne rimane sempre sufficientemente preso da investire somme in investigatori privati e funzionari imbroglioni per acquistare dubbie informazioni sul suo conto; e quando costei si risposa con un gonzo (o forse con un complice, il matrimonio a scopo divorzio e alimenti fa parte dell'ottica di gran parte dei personaggi), la rincorre fino a farsene ricattare. Nel frattempo Grant si pavoneggia insopportabilmente col gruppetto dei suoi satelliti, di cui entra a far parte il figlio maggiore, delirando di farsi scrivere su commissione un romanzo e poi una commedia di successo, incoraggiando con promesse persone più deboli che immancabilmente tradisce (una signora che ha ingannato si butta dalla finestra, ma Grant rielabora l'episodio alla sua maniera). La guerra in Europa romba lontanissima, suscitando in questa gente solo interrogativi circa futuri rialzi degli immobili o della cellulosa. Istrione, sentimentaloide, spietato e un po' matto, Grant simboleggia dunque quell'America tutta proiettata verso il materialismo? E la fredda biondina, pigra sfruttatrice nemmeno troppo furba, adombrerà il futuro dell'Europa una volta conquistata dai grossolani predatori? Forse non è il caso di chiederselo; come in tanto altro materiale di analoga provenienza, la forza delle immagini è essa stessa il messaggio; e qui l'occhio della Stead, mettiamo per i capi di vestiario in cui la biondina scialacqua, e il suo orecchio ad esempio per le teorie egocentriche del tronfio Grant, non hanno bisogno di echi per esercitare il fascino un po' morboso della cronaca nuda. DI Christina Stead (1902-83), nata nel Nuovo Galles del Sud, cresciuta a Sydney ma poi vissuta e affermatasi in Inghilterra e negli Usa, il pubblico italiano conosceva i due romanzi più famosi, entrambi parzialmente autobiografici, proposti da Garzanti negli Anni Ottanta: «Sabba familiare» (1940) col ritratto di un padre dominatore, e «Sola per amore» (1944), con la fuga a Londra di una ragazza che vuole sottrarsi alla vita meschina di un piccolo centro australiano e che faticosamente, anche attraverso amori sbagliati, diventa padrona di se stessa. Sono due libri diversi quanto più non si potrebbe da quello or ora tradotto per Adelphi e uscito in origine nel 1948. Quelli infatti erano, oltre che finissimi per la descrizione delle evoluzioni dei sentimenti, appassionati per la materia vicina al cuore dell'autrice; quello odierno è invece di gelida, ostentata impersonalità, tutta materia osservata sotto una luce ferma e distaccata come, paragone fin troppo ovvio, nei quadri del coevo Edward Hopper. Non diversamente da questo inquietante pittore, né da alcuni altrettanto iperamericani fotografi e registi, magari di serie B, dei primi Anni Quaranta, Christina Stead riproduce senza commenti un mondo ambiguo e pacatamente brutale. Proprio come in un interno di Hopper, in questo lungo libro non c'è, quasi, storia, ma soltanto situazione, ambiente, epoca: ossia, la New York degli anni bellici, quasi sempre circoscritta a poche strade di Manhattan coi loro bar e i loro alberghi. L'inizio è da perfetto film «hardboiled». Un giorno dell'aprile 1941, al semaforo fra la Diciottesima Strada e Irving Place, capita a Peter Hoag, intrallazzatore di professione, di caricare in macchina una biondina dall'aria non proprio innocente, ma nemmeno incallita, ferma a un semaforo. Dopo averla scarrozzata un po', l'affarista se la porta dietro a una riunione di suoi soci, nel caso possa interessare a qualcuno. Di questi si fa avanti Robert Grant, che diventa il protagonista del romanzo. Grant è diventato molto ricco speculando sul cotone e con altre attività, fra cui la compravendita di pellicce e investimenti immobiliari in Europa; ha a Boston una moglie e un figlio piccolo che non vede quasi mai; un altro figlio ventenne è all'Accademia Militare. Per continuare a fare quattrini a Grant bastano ormai poche ore al giorno, egli dedica così quasi tutto il suo tempo libero a rapporti con l'altro sesso, coltivando una vasta rete di donnette di facili costumi, commesse e impiegatucce su cui investire pochi spiccioli, più qualche damazza le creature dell'immaginazione, quelle destinate a entrare nei libri famosi o errare sulle labbra dei cantafavole. Nigro, invaghito della sua parola succulenta, si abbandona qui a una sarabanda di trovate, di storie e figure proliferanti che, aldilà di una certa macchinosità, fanno pensare al «Cunto de li cunti». Quando Pomponio riemerge alla luce del sole, non riuscirà più a separarsi dalla contaminazione tra favola e realtà, tra creature vere e creature sognate (e non saremo tutti, come suggeriscono Calderón e Unamuno, i fantasmi di una storia raccontata da altri?). Arriverà perfino, al seguito di un capitano dalla gamba stroncata come Achab, ai fiordi della Norvegia, a inanellare altri miti, altre ghiacciate, incontaminate leggende. Rientreremo nella normalità quando Pomponio diventa commerciante di merluzzi e salmoni, intraprende la strada della modernità e della ricchezza. Si lascia alle spalle un abisso di stenti, ma perde la facoltà di raccontare, di appagare e appagarsi nelle «fole» di un tempo. Sarà il figlio Eolo a vendicarlo, quando trasferirà le imprese paterne sul nastro di una pellicola rotante, la nuovissima meraviglia del cinema. Muore il racconto orale, muore l'ingenua immedesimazione con le vicende tramandate fra uliveti e trulli, ma resta inappagata e sempre fresca la voglia di raccontare. Finché l'uomo avrà respiro, dureranno la sua curiosità e la sua ansia fabulatrice. Stiamo leggendo, come è facile arguire, un romanzo non banale, di forte impegno stilistico, di generosa passione intellettuale e morale. Azzardo soltanto che alla sua natura di apologo avrebbe giovato un percorso più agile e netto, insieme a una più chiara distinzione di piani, a una diversa calibratura del favoloso e del reale. A evitare che l'apprezzamento sia a tratti appannato da un senso acuto di spaesamento. Lorenzo Mondo