Proietti cesella il suo Cellini

=1 Coraggioso Berlioz all'Opera di Roma, sciopero rientrato Proietti cesella il suo Cellini Finale a effetto, applausi per tutti ROMA. Coraggiosa inaugurazione della stagione romana con il «Cellini» di Hector Berlioz (rientrato lo sciopero): l'opera non è e non sarà mai popolare, arroccata nel suo intellettualismo da cui emanano bellezze gelide e disarmoniche. Eppure, in un'esecuzione scorrevole come quella diretta da John Nelson, con le scene di Quirino Conti e la regia di Gigi Proietti, molto musicale e funzionale, può essere ascoltata tutta d'un fiato, e andare incontro, com'è avvenuto, ad un franco successo. A Berlioz venne l'idea nel 1834, leggendo la «Vita» di Benvenuto Cellini: e quanto l'esistenza di questo artista scapestrato venisse incontro alla mitologia del genio romantico, pieno di slancio ed energia vitale, non è da dire. Ma altrettanta, e forse maggiore suggestione, ebbe per 0 compositore l'ambiente artistico del manierismo italiano: cosicché, definendo con la massima accuratezza lo sfondo della Roma cinquecentesca, finì per proiettarlo in primo piano, e conferire all'ambiente una «presenza» assai più concreta di quella che caratterizza i personaggi, poco più che larvali. Questo si vede, innanzitutto, nella splendida scena del carnevale romano, culmine della partitura: al centro del secondo atto Berlioz fa roteare per venti minuti il gigantesco mulinello della folla che si accalca in piazza Colonna attorno ai saltimbanchi con cori, danze, canti e figure grottesche, fornendo alla storia dell'opera una delle scene più irresistibili che si conoscano. Ma l'intero tessuto musicale del «Benvenuto Cellini» mira a definire un ambiente storicamente esatto, attraverso l'impiego di ritmi, timbri e temi tratti dal folklore locale; e al culto manieristico, di una bellezza artificiosa e formalmente accurata, tende la scrittura vocale e, soprattutto, strumentale di Ber¬ lioz che non finisce di sorprendere per la sua modernità, anche nelle parti meno riuscite. E' incredibile che nel 1838 si potesse scrivere una musica così modernamente frantumata, fatta di impulsi sovrapposti, talvolta brevissimi, e costantemente screziati in una mirabolante varietà di colori timbrici. Nel primo atto, ad esempio, gli archi tacciono a lungo ed è tutto un frullare, un pigolare, un picchiettare, uno squillare, un martellare leggero di strumenti a fiato, per lo più legni, trattati con un gusto cameristico e vagamente arcaico, evidentemente connesso ad un'idea del lontano Cinquecento, reso da assottigliamenti filiformi, e da un pathos talvolta mortuario, berlioziano al cento per cento, come nella musica del corteo papale. Arie belle ce ne sono, come quella di Cellini all'inizio del secondo atto e quella di Ascanio, all'inizio del quarto: ma, al di là dello squarcio melodico, l'interesse ricade sempre su quei processi, davvero «celliniani» di oreficeria orchestrale, su quel tessuto che, come un arazzo cinquecentesco, esibisce il virtuosismo della sua trama. L'opera ha avuto, come s'è detto, un'esecuzione accurata sotto la guida del direttore John Nelson che ha trattato l'orchestra con leggerezza e trasparenza. Bravo il tenore David Kuebler nella parte di Cellini e Deborah Riedel in quella di Teresa: i rispettivi personaggi sfumano nell'inconsistenza ma giova loro la capacità di abbandono lirico che i due interpreti hanno mostrato. Attorno ai due amanti, gli altri definiscono una cornice brillante - non dimentichiamo che il «Benvenuto Cellini» nacque cone «opera comique» di cui reca traccia in alcune brevi scene parlate: Fieramosca (il bravo Alain Verhnes) e Balducci (il veterano, e un po' stanco Jules Bastin), assieme a Pompeo (Paolo Orecchia), Ascanio (Diane Montague), Francesco (Marco Berti) e altri, si muovono vivacemente, su ritmi di commedia che Gigi Proietti ha assecondato e valorizzato con molto garbo: nessuna forzatura, una attenzione evidente ai movimenti e ai gesti suggeriti dalla musica, belle luci, mentre le scene di Quirino Conti ritraggono una Roma aperta sulla natura, oppure delimitata dai candidi ambienti rinascimentali (l'atelier di Cellini) o da architetture piranesiane come quella del Colosseo in cui avviene, alla fine, la fusione del Perseo, concludendo l'opera con la colata di metallo incandescente che dalla caldaia va a riempire la forma della statua, portando al trionfo finale la volontà dell'artista. Conclusione ad effetto, che ha strappato l'altra sera meritati applausi per tutti. Paolo Gallarati Gigi Proietti, regista del «Benvenuto Cellini» di Berlioz. A destra un'immagine del cesellatore

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