Tre pentiti i killer del poliziotto

Uno dei collaboratori di giustizia riceveva lo stipendio e godeva della protezione dei militari Uno dei collaboratori di giustizia riceveva lo stipendio e godeva della protezione dei militari Tre pentiti i killer del poliziotto Verona, sorpresi mentre preparavano una rapina Napoli, nuovo caso «Rischia di morire in cella» VERONA. Pentiti assassini. Ci sono anche tre collaboratori di giustizia tra i sette uomini finiti in manette con l'accusa di aver ucciso un poliziotto. Quasi sicuramente dalla pistola di uno di loro ò partito il colpo che la sera del 19 ottobre scorso ha ucciso a Fumane, a pochi passi da Verona, l'agente Massimiliano Turazza. Ucciso perché aveva mandato a monte il loro piano di assalto a una banca. Sì, perché la loro specialità, erano le rapine in banca. Anche per Alceo Bartalucci, quello che, ora dicono gli investigatori con qualche imbarazzo, era un «collaboratore di giustizia» a tutti gli effetti: aveva offerto la sua disponibilità alla magistratura già dal gennaio '92, dopo essere stato arrestato a Prato per una rapina. Un collaboratore fidato: le sue confessioni avevano permesso di individuare gli autori di oltre cento rapine compiute nel Nord Italia, aiutando anche gli investigatori impegnati contro la «mafia del Brenta», fino a deporre nel recente maxiprocesso. Ma c'è di più. Dalla fine del '92 era anche sottoposto ad un regolare programma di protezione Alceo Bartalucci: quindi stipendio, documenti di copertura e carabinieri a vigilare il suo domicilio. E lui ha approfittato al meglio di questa situazione. Gli altri ex «collaboratori di giustizia» finiti in manette, Camillo Romano e Roberto Bragato, non erano sottoposti ad un programma di protezione, avevano però collaborato nel passato con i magistrati confessando le proprie responsabilità e indicando i coautori in alcune rapine e di ciò si era tenuto conto in sede processuale. Le indagini. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, illustrata in questura a Verona dal responsabile del servizio centrale operativo, Monaco, Turazza è stato ucciso dopo che aveva tentato di identificare una persona sospetta trovata nei pressi della filiale della Banca Popolare di Verona, a pochi metri dall'abitazione dell'agente. Secondo gli inquirenti, il poliziotto, mentre inseguiva l'individuo sospetto, è stato sorpreso alle spalle da alcuni complici di quello. Contro l'agente sono stati sparati sei colpi di una pistola a tamburo calibro 38, quattro dei quali lo hanno raggiunto alla schiena, uccidendolo. Gli investigatori si dicono convinti che a sparare sia stata una sola persona. Ma all'omicidio hanno assistito più persone, forse tutti e sette i componenti di questa banda di pregiudicati veneti e lombardi ritenuti responsabili di un centinaio di rapine nel Nord Italia. Una banda che usava sempre la medesima tecnica e agiva sempre di notte: entravano armati all'interno di istituti bancari ed attendevano gli impiegati, la mattina, per sequestrarli e costringerli ad aprire la cassaforte e consegnare il denaro. La stessa cosa si apprestavano a fare la notte del 19 ottobre quando il giovane poliziotto li aveva però notati. Delle sette persone individuate, quattro sono state arrestate la mattina dell' 11 gennaio su ordine del gip Sandro Sperandio. Si tratta di Camillo Romano, di 34 anni di Meda (Milano), già collaboratore di giustizia; Andrea Lazzari (29), di Merano (Bolzano); Roberto Bragato (38) di Cermenate (Como), anche lui ex collaboratore di giustizia; Antonio Paladino (34) di Seveso (Milano). Nella tarda serata dell'11 gennaio il pm ha disposto il fermo di Ciro Romano (41 ) di Meda, fratello di Camillo; Alceo Bartalucci (38), collaboratore di giustizia, che è stato bloccato nel suo «domicilio protetto» in provincia di Verona; Riccardo Guglielmi (28) di Arona (Novara). Tutti sono indiziati a vario titolo di omicidio e rapina. Le indagini dovranno stabilire ora chi ha sparato: del gruppo di fuoco di quella sera facevano parte in tre: i due fratelli Romano e Alceo Bartalucci, il pentito con licenza di uccidere. [f. ru.] NAPOLI. Infartuato, quattro bypass, tre dita di un piede amputate per la cancrena. Sta scontando dieci anni di galera, ma i famigliari ne parlano come di un condannato a morte. Un epilogo inevitabile - assicurano - se i giudici si ostineranno a disporne la detenzione a Poggioreale senza tener conto del responso dei medici che parlano di assoluta incompatibilità delle condizioni di salute con il regime carcerario. Per Giuseppe Botta, di 53 anni, condannalo per una storia di droga, è sceso ieri in campo il Comitato di difesa dei detenuti. «Chiederemo ai famigliari di mostrare in tivù, com'è stato l'atto per De Lorenzo, le immagini di quel che resta di quest'uomo», annuncia Franco Corbelli, presidente del comitato. Botta fa parte di quella categoria di detenuti che va sotto il nome di «definitivi». Non rientra cioè nella folta schiera delle persone in attesa di giudizio per le quali è stata sollevata da tempo la questione sulla custodia cautelare ritornata prepotentemente alla ribalta proprio a Napoli con la vicenda di Rosa Luciano, morta nel carcere di Pozzuoli per un «intoppo» burocratico. Per lui una condanna con il riconoscimento delle responsabilità c'è infatti già stata: dieci anni di reclusione per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. E buona parte della pena, sette anni, l'ha già scontata. «Potrebbe usufruire della legge Gozzini, che consente la scarcerazione per buona condotta dopo aver scontato un terzo della pena», dice la moglie Maria che da giorni sta percorrendo la sua Via Crucis tra redazioni di giornali e studi di avvocati. Se la prende con il Tribunale di sorveglianza che avrebbe disatteso le conclusioni del perito di parte, prof. Pannain, e con i responsabili del penitenziario che avrebbero negato al marito persino il ricovero, [e. 1. p.]