Si combatte nel palazzo di Dudaev di Anna Zafesova

Il segretario Usa Christopher: a Mosca un passo indietro nella democrazia Il segretario Usa Christopher: a Mosca un passo indietro nella democrazia Si combutte nel paiono di Dudaev / russi ormai vicini alla conquista di Grozny MOSCA NOSTRO SERVIZIO Il conto alla rovescia per Grozny è cominciato. Ieri le truppe russe sono riuscite finalmente a entrare nel palazzo presidenziale. E i leader dell'opposizione cecena stanno già pregustando la loro entrata nella capitale. Non sarà facile. I ribelli si difendono con ostinazione. Dentro al palazzo di Dudaev si combatte stanza per stanza, corridoio per corridoio. Per impadronirsi dell'ex residenza del presidente ceceno, ormai ridotta in rovine, i russi dovranno uccidere, uno per uno, i 500 uomini che la difendono. E ogni scalino, disceso dai soldati verso le profondità del bunker, viene conquistato con il sangue. Per i russi comunque la presa dell'edificio è una questione essenziale. Una volta imponente e austero, tipico esempio dell'architettura del regime sovietico, oggi è un tizzone annerito dal fuoco. I piani superiori sono stati distrutti dalle bombe, quelli inferiori sono stati sventrati dalle granate. Non ha più valore come obiettivo strategico. Ma è il simbolo più importante della resistenza cecena. E qualcuno a Mosca probabilmente pensa che la sua caduta segnerà anche la fine della guerra. Ma non sarà così. La battaglia di Grozny non è ancora finita. Il presidente Dudaev, che si è fatto intervistare per telefono da un giornale tedesco, ha smentito l'affermazione di Mosca che le truppe russe controllerebbero ormai il centro della città. «Combattiamo casa per casa, via per via», ha detto. Per poi minacciare di portare la guerra a Mosca: «Possiamo fare quello che fece un giovane pilota tedesco - Matthias Rust, ndr - alcuni anni fa: atterrare sulla Piazza Rossa. Noi conosciamo meglio il terreno. Possiamo anche lanciare delle bombe». Anche fonti russe ammettono che l'avanzata procede tra mille difficoltà. Sotto il martellante cannoneggiamento dei russi, gli indipendentisti conservano il controllo su diverse zone della UN DOCUMENTO ACCUSA LA NIGERIA SANGUE e petrolio, bustarelle e repressione, multinazionali senza scrupoli e generali spietati: nel teatro degli orrori nigeriano. Paese di potenziali miliardari finiti in bolletta, si recita l'ultimo atto di una tragedia che ha già copioni liberiani o ruandesi. Gli Ogon sono una delle 250 etnie che, a malincuore, vivono affastellate sotto il bastone della giunta militare al potere. Il destino ha concesso loro, allo stesso tempo, una grande fortuna e una grande disgrazia. Il terreno che calpestano ogni giorno infatti trasuda petrolio, la maggior quota di quei due milioni di barili che fanno della Nigeria un gigante del greggio. Ma l'oro nero non significa la felicità: come dimostra una brutale repressione fatta di torture, villaggi bruciati, assassinii politici che ha il sapore di una pulizia etnica e un bilancio già di 1800 morti. Il guaio è che il petrolio degli Ogon è come una cannella di ossigeno per la giunta ora diretta dal generale Abacha, che ha sperperato in progetti faraonici e normale corruzione qualcosa come 13 miliardi di dollari. Senza il greggio infatti l'inflazione, che sfreccia allegramente al 100 per cento e un debito di 28 miliardi di dollari che nessuno fa nemmeno finta di pagare, si trasformerebbe immediatamente nella bancarotta. Così il paradiso degli Ogon è stato in pratica svenduto alla Shell, diventando una terra di nessuno in cui estrarre, fare prospezioni, inquinare, il tutto sotto lo sguardo benevolo e al riparo dai fucili dei generali. In Africa sarebbe un'operazione normale, se non ci fosse un guastafeste di nome Ken SaroWiwa, uno scrittore, un pericoloso idealista per di più con città. E il tentativo dei russi di espugnare la sede del Parlamento, proprio di fronte al palazzo presidenziale, è stato respinto. Nei sotterranei di Grozny rimangono ancora prigionieri russi. Dudaev si è vantato di aver catturato perfino dei generali. «Ma li tratteremo bene», ha promesso. I combattimenti infuriano anche fuori Grozny. Le truppe russe stanno cercando di bloccare la città di Argun, già quasi distrutta dai bombardamenti nelle settimane scorse. L'aviazione ieri ha sganciato bombe sui villaggi di montagna, dove si stanno ritirando gli uomini di Dudaev per scatenare da lì una guerra partigia- L'UOMO DEL DIALOGO CON L'OCCIDENTE Georgi Arbatov, direttore a Mosca dell'Istituto per gli Usa e il Canada, è stato uno dei principali consiglieri di politica estera di Gorbaciov ai tempi dell'apertura all'Occidente. PMOSCA ROVO pena per Boris Eltsin. Sembra che quest'uomo, che fondamentalmente è una brava persona, non sappia più che cosa fare. Dall'assalto di Grozny credo che questa sia anche l'impressione di gran parte della comunità internazionale. Già prima della crisi cecena il presidente russo aveva parlato di una «pace fredda», lasciando stupefatti gli occidentali già preoccupati dalle molte e crescenti divergenze su Bosnia, Nato e Iraq. L'origine del problema sta nella svolta negativa della situazione interna russa negli ultimi tre anni. Dotato di scarsissime conoscenze economiche, e sotto la pressione del leader e delle istituzioni finan- na. Ma altri combattenti continuano ad arrivare nella capitale e molti guerriglieri hanno deciso di non abbandonarla se non da morti. Il Cremlino intanto sembra intravedere, con un sospiro di sollievo, la fine della crisi. Ieri il segretario del Consiglio di Sicurezza Oleg Lobov ha annunciato l'apparizione di «segnali di conclusione» dei combattimenti. «Stiamo vivendo la fase più acuta del conflitto», ha detto Lobov, uno degli ideologi della guerra, ma ha fatto capire che sarebbe una questione di pochi giorni. Al punto che ormai al Cremlino si pensa a un governo che rimpiazzi Dudaev e che venga accet- tato dai ceceni. Il problema non è dei più facili: imporre un potere da Mosca sembra un'impresa quasi impossibile. Nei giorni scorsi Boris Eltsin ha abbandonato l'idea di portare a Grozny un governo marionetta composto da uomini dell'opposizione a Dudaev. Il presidente russo ha proposto invece di affidare la gestione della transizione, fino a nuove elezioni, all'ultimo potere formalmente legittimo della Cecenia: il vecchio Soviet Supremo sciolto dal generale Dudaev tre anni fa. Ma anche questa idea sembra essere stata accantonata. E ora il Cremlino sta cercando qualcuno più adatto a governare i ribelli ceceni. Le condizioni, rivelate da Lobov, sono estremamente vantaggiose: possibilità di disporre liberamente del patrimonio della repubblica autonoma e esentazione dalle tasse federali. Ma è troppo presto per parlarne. «Durerà più dell'Afghanistan», ha promesso Dudaev e forse ha ragione. E anche il barometro internazionale del Cremlino segna maltempo. Pochi giorni prima di incontrare a Ginevra il ministro degli Esteri russo Kozyrev, il segretario di Stato degli Usa Warren Christopher, intervistato dalla Cnn, ha detto che «Mosca ha fatto un passo indietro nella marcia verso la democrazia». Anna Zafesova