L'ultima spiaggia di Don Vito di Francesco La Licata

L'ultima spiaggia di Don Vito L'ultima spiaggia di Don Vito L'ex re di Palermo adesso fa il pentito I MISTERI DI UN POTENTE AROMA H don Vito! Passano gli anni ma lui, l'uomo che fu uno dei padroni di Palermo, non finisce mai di stupire. Alla vasta galleria di personaggi che Ciancimino ha interpretato, durante la sua lunga e controversa storia, mancava solo quello di pentito. Avevamo imparato a conoscerlo nei panni di arrogante uomo di potere, poi i collaboratori della giustizia ce lo descrissero addirittura come raffinata mente criminale al servizio di Cosa nostra. Le telecamere non gli risparmiarono l'onta di riprenderlo curvo, con la barba bianca che metteva in risalto le guance scavate di vecchio malfermo in salute, eppure ospite delle patrie galere. Lo abbiamo visto, in carne ed ossa, anche dopo la scarcerazione ed era ancora una volta cambiato. Ho ancora nitido il ricordo del «buon don Vito» - improvvisamente docile coi giornalisti - che se ne sta seduto nel suo salotto romano e lancia anatemi e segnali, messaggi e «consigli» a tutti, ai suoi ex amici di partito, ai nuovi politici e - naturalmente - ai giudici. Tutto potevamo immaginare, tranne che il nome del più discusso uomo politico siciliano (titolo che gli fu conteso solo da Salvo Lima, l'altro padrone della de e di Palermo) finisse nel «processone» contro Giulio Andreotti, come leste a carico in compagnia di dodici collaboratori della giustizia. Già, proprio quelli che l'ex sindaco aveva sempre attaccato accusandoli - nel migliore dei casi - di disinformazione. Certo, non siamo al pentimento totale. Non è nello stile di un uomo che per decenni ha avuto a che fare con politici e mafiosi, sempre trovando il giusto tono per la trattativa. Non è nello stile di un uomo che, pur avendo alzato la voce in più d'una occasione, non sembra essersi fatti nemici diversi da quelli (magistrati e investigatori) che per istituto ne hanno contrastato il passo. Don Vito però ha parlato. Sempre a modo suo - ammiccando e badando a non sbragarsi - ma con una novità sostanziale: mettendo la sua riverita firma sotto ai verbali scritti da Caselli e soci. In precedenza aveva cercato un'altra via d'uscita, una soluzione che gli permettesse di non entrare sul terreno (scivoloso) della via giudiziaria. Aveva chiesto udienza alla commissione antimafia. Ma né Chiaromonte, né Violante gli concessero il beneficio dei riflettori accesi. Come ultima spiaggia, dunque, sembra aver accettato il colloquio coi magistrati. Con quegli stessi «eredi» di Giovanni Falcone, il giudice che gli strappò l'aureola di intoccabile, mandandolo in manette all'Ucciardone. Già, Falcone. Don Vito non ha mai fatto mistero di non amarlo. Parlandone con Giampaolo Pansa, disse: «Falcone voleva il potere. E s'era trasferito a Roma per conquistarlo. Se fosse riuscito a realizzare la Superprocura, sarebbe stato anche lui un padrone d'Italia...». Adesso parla. Roba da non riconoscerlo più. Dov'è finito il capocorrente che, al momento di fare le li¬ ste per le elezioni, metteva alla porta chi protestava per essere stato scartato, aggiungendo che bisognava fosse chiaro chi comandava? «Malocarattere», si dice in palermitano di uno come lui, un po' arrogante ed irascibile. Temperamento che tradì don Vito anche durante una passeggiata romana in via Nazionale. Un ufficiale dei carabinieri lo fermò per identificarlo, il siciliano non gradì e parlò troppo, beccandosi una denuncia per oltraggio. Spocchioso, anche. Come quando, giocando a poker, si lasciò andare con gli amici e - riferendosi al sequestro dei beni ordinato dalla magistratura - commentò: «Mi hanno tolto solo un pelo dei c...». Eppure... Eppure era da tempo che voleva «sfogarsi», anche se per raccontare solo quello che gli aggrada. I •>'•••> • • V .'.'l'i» Don Vito ha vergato di suo pugno un manoscritto grosso come l'elenco del telefono. Ci ha messo dentro tutto: molte considerazioni, un po' meno fatti, spesso visti dalla sua ottica particolare. Ci tiene tanto, Ciancimino, al suo «libro». Anche se non ha avuto la fortuna di trovare un editore, non perde occasione di mostrarlo a quanti riescono ad avvicinarlo. Me lo mostrò a casa sua, salita di S. Sebastianello, a piazza di Spagna. Eravamo sotto Natale del 1992 e, sorseggiando acqua fredda e caffè forte, mi affidò nelle mani il «malloppo». Difficile - vista l'impossiiblità di approfondire - farsi un'idea precisa. Si capiva soltanto che attaccava la de e Andreotti e, in qualche modo, «risparmiava» il suo ex amiconemico Salvo Lima. Non so cosa vi fosse scritto su Dalla Chiesa, è certo - però - che la morte del generale, per Ciancimino, ha sempre avuto una matrice romana. Così come la strage di Capaci. D'altra parte, si sa, per alcuni siciliani la mafia - in quanto tale - non esiste. La vera mafia sta a Roma, si è sempre detto per sviare l'attenzione dai grovigli palermitani. Manco a dirlo, don Vito parlò malissimo dei «comunisti». Denunciò che facevano parte della «Tangentopoli ante-litteram siciliana», ma «loro non volevano soldi, volevano appalti per le cooperative». «A Palermo - aggiunse - lo chiamavamo il sistena dell'equa parte. Tanto per cento di voti, tanto di mazzetta. Io? A me bastava far lavorare le mie imprese». Gli chiesi di poter leggere bene il «malloppo». «Parliamone dopo Natale», rispose. Ma pochi giorni dopo, il 18 dicembre di quell'anno, fu riarrestato e, come direbbe lui e forse si aspettava, i giudici «buttarono la chiave». Francesco La Licata

Luoghi citati: Capaci, Italia, Palermo, Roma