ARBASINO «deserto dopo la tempesta» di Umberto Eco

ARBASINO Mezzo secolo di letteratura italiana: la catastrofe comincia col '68 ARBASINO Desertodopo la impesta ROMA N album interrotto, le ultime pagine strappate, una continuità spezzata. L'album della letteratura italiana di questi cinquant'anni sfogliato da Alberto Arbasino incontra a un certo punto il nulla. Prima un susseguirsi di guerre e guerricciole, di letture e di scontri memorabili, poi, dal '68 in qua, la desertificazione del panorama letterario. Oppure l'effetto di una glaciazione, di una bomba invisibile ma devastante che Arbasino, ricorrendo a un'espressione collaudata, definisce la «grande mutazione antropologica». Un grande buco nero. E pensare che in Italia infuria la polemica sugli eventuali buchi che hanno lacerato la tela della memoria letteraria della Prima Repubblica, sui nomi dimenticati o misconosciuti, sulle opere e gli autori trascurati per pigrizia culturale, schematismo ideologico, jattanza politica. Arbasino, dobbiamo chiedere scusa a qualcuno? E rendere omaggio a qualche figura sbiadita di questo album della letteratura italiana? «Se proprio dobbiamo chiedere scusa a qualcuno, dobbiamo pensare a maestri a lungo ignorati come Tommaso Landolfi e Antonio Delfini. Ignorati, però, non per oscure macchinazioni politiche o ideologico-editoriali ma semplicemente perché due grandi irregolari come loro, espressione di una piccola nobiltà provinciale oramai in declino, non hanno trovato spazio nei nostri tinelli letterari». Incombe invece, con Arbasino, quel grande buco nero. Talmente grande da far rimpiangere persino «i bui Anni 50». «Ripensando al tono letterario dei nostri vituperatissimi Anni 50», spiega Arbasino, «ci si imbatte in un curioso fenomeno di psicologia culturale». Sarebbe a dire? «Voglio dire che in tanti, allora, vivemmo la sensazione che una cappa soffocante si fosse inesorabilmente chiusa sull'Italia. L'impressione che una palude immobile stesse sommergendo l'euforia suscitata dalle grandi speranze coltivate con la fine della guerra. Un mare piatto e limaccioso. Un clima asfissiante. La percezione insomma che nell'Italia culturalmente e intellettualmente si vivacchiasse da cani». E il fenomeno di psicologia culturale? «Ci arrivo fra un momento. Non prima di aver constatato che se si va a spulciare col senno di poi nell'assortimento di buoni libri, di ottimi spettacoli, di apprezzabili film venuti fuori in quegli anni, ci accorgeremmo facilmente che in quella palude immobile fiorivano prodotti decisamente, incomparabilmente migliori di quelli che furoreggiano nei nostri anni di zombie». Non ci vorrà mica negare un dettagliato elenco di nomi, titoli, esempi? «Ovviamente no. Madamina, il catalogo è questo: un mese dopo l'altro uscivano, per chi era in grado di leggerli senza dover attendere la voga gaddiana Anni 60 suscitata dal Pasticciaccio e dalla Cognizione del dolore, i libri di Carlo Emilio Gadda. Poi le migliori cose di Giovanni Comisso, gli scritti di Palazzeschi, di Mario Praz, di Roberto Longhi. Tutti i grandi maestri che in seguito sarebbero diventati "mitici", stavano lì, a nostra disposizione. Oppure: si prenda la pagina degli spettacoli di un qualunque giornale milanese dell'epoca e si vedrà che in quei sette, otto teatri che ne valeva la pena il ventaglio delle opportunità era A sontuoso. Potevi scegliere tra la Callas alla Scala, Strehler al Piccolo, Totò al Nuovo, e poi Gino Cervi o Maltagliati, Cimarra o Tofano all'Odeon o all'Excelsior. Eravamo abituati bene e ci potevamo permettere di fare gli schizzinosi: "Stasera si va a vedere Fellini o Visconti?". Magari sospirando: "Uffa, sempre 'sta roba". Ecco, il curioso fenomeno di psicologia culturale è il seguente: non è che il senso di palude, l'impressione di immobilità non fossero autentici. E' che, non appena si introduce un elemento di comparazione con il dopo, cambia di colpo la prospettiva, saltano le gerarchie, viene restituito un clima completamente diverso da quello percepito allora». Cos'era che alimentava quella sensazione di immobilismo e di depressione, forse il clericalismo, l'egemonia centrista, il venire alla luce dell'Italia democristiana? «Non solo». E cos'altro allora? «Per esempio il fatto che ci trovavamo di fronte a un establishment culturale che occupava avidamente tutti i posti e teneva un piede in cento scarpe diverse. Una giostra di nomi, da Moravia in giù, che recitavano più parti simultaneamente. Le stesse persone si insediavano nella terza pagina del Corriere della Sera, pontificavano dalle riviste di sinistra (cioè quelle che "portavano avanti il dibbbattito", la versione italiana del sartrismo che si avvitava nel chiacchiericcio interminabile, dunque non riviste serie come II Verri o Paragone o Tempo Presente), ottenevano la re¬ censione favorevole di Rinascita, trovavano una nicchia confortevole in qualche programmino nella Rai "di regime"». Ma non c'era il clima da guerra fredda, il muro contro muro, il potere politico saldamente nelle mani dei cattolici e quello culturale gelosamente custodito dalla sinistra? «Direi il contrario: nell'establishment culturale spariva ogni seria contrapposizione e tutto si fondeva in un'informe pasta gommosa e viscida. Prendo il caso di Moravia come puro ideal-tipo: poteva scrivere sul Corriere della Sera accanto a Panfilo Gentile e senza imbarazzo intervistava Togliatti su Nuovi Argomenti, bazzicava nel cinema ma aveva sempre il tempo di rilasciare qualche fondamentale intervista all'Unità». E intanto all'epoca Arbasino esortava gli intellettuali e i letterati italiani a inforcare la bicicletta per una bella «gita a Chiasso». «I letterati italiani avevano l'abitudine di giustificare il provincialismo della nostra letteratura con l'alibi del fascismo. Con quell'invito a recarsi a Chiasso mi limitavo alla fine degli Anni 50 a stilare un nutrito elenco di titoli stranieri degli Anni 10, 20 e 30 che, se fossero stati utilmente tradotti, letti e assimilati dopo il '45, ci avrebbero risparmiato la noia e la vanità dei dibbbattiti che stavano ammorbando la letteratura di quel pe- riodo. Purtroppo nei tardi Anni 60 si è verificato il fenomeno opposto: un'ondata indiscriminata di traduzioni ha travolto la nostra editoria spesso accordando la preferenza agli epigoni piuttosto che ai maestri, ai sottoprodotti invece che ai testi fondamentali, con il risultato di confondere ancor più le idee già confuse». Gli Anni 60, appunto. Arriva l'onda d'urto del Gruppo '63 («l'avanguardia in vagone-letto», lo ribattezzò l'Espresso). La frattura generazionale incrina e disarticola la «pasta gommosa», immette nell'ambiente letterario italiano un'atmosfera di rivalità, di resa dei conti che ancor oggi deposita rancori e risentimenti mai sopiti. «Tutto per un equivoco», precisa Arbasino. Un equivoco? «In un Paese che viveva (e vive) di posti graziosamente elargiti e di raccomandazioni, nel 1963 un grido di terrore fece rabbrividire la nostra pigra repubblichetta delle lettere: "Aiuto, quelli lì si vogliono prendere tutti i posti". "Quelli lì", eravamo noi del Gruppo '63, una combriccola di coetanei molto diversi tra loro (nient'altro a parte l'età univa figure così dissimili come Manganelli e Umberto Eco, Nanni Balestrini e Angelo Guglielmi, Alfredo Giuliani e uno come me) che voleva approfittare dell'euforia liberatoria del boom economico per farla finita col santino tradizionale dell'intellettuale come un povero disgraziato, perennemente affamato e miserabile, alla mercè del potente, costretto alla manovalanza della recensione compiacente per poter comprare un paio di scarpe. Voleva insomma sfruttare quei primi conati di indipendenza per portare nella letteratura italiana qualche barlume di aggiornamento». E invece vi accusarono di essere spregiudicati, cinici, disinvolti. «Bastò che si rompesse l'abitudine tribale, da clan, impastata di servilismo e deferenza per seminare il terrore nell'establishment. Che ci trattò come rivoluzionari all'arrembaggio dei posti. Senza però considerare il piccolo dettaglio che noi trentenni il posto in cadreghino ce l'avevamo già tutti, tra giornali, Rai, case editrici e Università». Resta il fatto che a più di trent'anni di distanza quella rivoluzione sembra aver lasciato intatto un muro di ostilità, di diffidenze, di malumori. Tre anni fa Enzo Siciliano ha tirato nuovamente fuori torbide storie di cassetti di Bassani violati nella redazione romana della Feltrinelli, dattiloscritti trafugati, sotterranee guerre editoriali. «Sciocchezze», commenta Arbasino: «Se la buttiamo sul recriminatorio dovremmo allora ricordare le pratiche intimidatorie e le scorrettezze con cui l'establishment tentò di tamponare il fenomeno, a cominciare dalle telefonate di Moravia ai direttori dei giornali che assomigliavano alle la¬ mentele di Fanfani quando s'arrabbiava con Agnelli per i servizi di Gorresio: "Quello non deve più scrivere". Oppure le mille difficoltà che ho dovuto subire soltanto perché sul Giorno avevo una rubrica come "Le mura e gli archi" che rompeva con le abitudini di clan. Su, non facciamo drammi ridicoli. Resta il fatto che noi volevamo utilizzare le nuove opportunità con un programma che non fosse di bieco bestselleraggio commerciale mentre l'establishment ci trattò da rivoluzionari che appena fossero entrati nella cittadella del potere si sarebbero accontentati di un pezzetto di torta, briciole comprese. Non immaginavano che questo meccanismo micidiale si sarebbe messo in moto qualche anno più tardi, nel '68». Meccanismo micidiale, il '68? «Direi una data spartiacque perché a questo punto tutto questo vociante pollaio di risentimenti e di congiure viene spazzato via. Ora sì che comincia l'arrembaggio alla grande, l'arrivismo senza scrupoli di quelli che vanno in piazza e si esercitano con le bottiglie molotov per conquistare più in fretta un posto di caposervizio in un telegiornale. Da questa fucina escono i più famosi traformisti della politica italiana, ma anche del giornalismo e della letteratura». Comincia qui, per Arbasino, l'apocalittica catastrofe della letteratura italiana. «Malgrado i rimproveri di Calvino, ebbe inizio per me un periodo di profondo disamore per la nostra letteratura. Quelli che avevano più talento della nuova generazione dichiaravano il loro disprezzo e la loro ripulsa per la letteratura considerata alla stregua di un'attività disdicevole. Passava la voglia di leggerli e appariva ogni giorno più chiaro che sarebbe stato meglio visitare una mostra o frequentare un festival piuttosto che passare il tempo con prodotti sempre più dozzinali». Vuol dire che lei non ha più letto romanzi della generazione post-sessantottesca? «Più o meno». Senza rimpianti? «Uno soltanto: aver letto poco o male uno come Pier Vittorio Tondelli, che ho scoperto troppo tardi». E Del Giudice, o De Carlo, Montefoschi, Tabucchi, Benni, o qualunque altro nome che le viene in mente? Arbasino non risponde, bocca cucita e sguardo sornione. E Susanna Tamaro? Bocca cucitissima e lo sguardo fisso al soffitto. Insomma, Arbasino, vuol forse dire che la letteratura italiana è un deserto.. «Mica soltanto quella italiana», interrompe l'autore di Fratelli d'Italia, «non ha sentito mai parlare della grande mutazione antropologico?». Vagamente. «E' quel fenomeno che impedisce la nascita di un nuovo De Gaulle, di un nuovo Laurence Olivier, di un nuovo Totò. E' quel décalage che in poco tempo ha irreversibilmente rimpicciolito ogni cosa, non solo la letteratura. Nella musica italiana è venuto niente dopo i Belio e i Bussotti?». Ma la sua non sarà l'ennesima deprecazione di chi si sente scavalcato dallo spirito dei tempi? «Non saprei. So soltanto che mi mancano moltissimo quattro amici: Calvino. Pasolini, Parise e Testori. Ogni tanto ci mandavamo a dire che durante la vecchiaia avremmo passato un mucchio di tempo a litigare tra noi sulle cose che abbiamo scritto in tanti anni. Quel tempo è arrivato. Ma loro non ci sono più». Il grande buco nero. Pierluigi Battista «L'esperienza del Gruppo '63, un grido di terrore nell'establishment intellettuale» «Montefoschi, Tabucchi, Benni? No comment. Ho un solo rimpianto: aver scoperto tardi Pier Vittorio Tondelli» «Viviamo in un'epoca di zombie, era meglio la palude degli Anni 50» «Non possono più nascere i Totò, De Gaulle, Olivier» «Una grande mutazione antropologica, non solo da noi: tutto si rimpicciolisce» ALBUM DI CINQUANTANNI m f'i"f - SB mm ' *} W W o». E cosaltro allora? «Per mpio il fatto che ci trovavamo fronte a un establishment cultue che occupava avidamente tutposti e teneva un piede in cento rpe diverse. Una giostra di no da Moravia in giù, che recitano più parti simultaneamente. stesse persone si insediavano la terza pagina del Corriere delSera, pontificavano dalle riviste sinistra (cioè quelle che "portano avanti il dibbbattito", la verne italiana del sartrismo che si vitava nel chiacchiericcio interminabile, dunque non riviste serie come II Verri o Paragone o Tempo Presente), ottenevano la re¬ ni dei cattolici e quello culturale gelosamente custodito dalla sinistra? «Direi il contrario: nell'establishment culturale spariva ogni seria contrapposizione e tutto si fondeva in un'informe pasta gommosa e viscida. Prendo il caso di A lato Alberto Arbasino nel '67 e, sopra, in una immagine recente. In basso Pier Paolo Pasolini ne di giustificare il provincialismo della nostra letteratura con l'alibi del fascismo. Con quell'invito a recarsi a Chiasso mi limitavo alla fine degli Anni 50 a stilare un nutrito elenco di titoli stranieri degli Anni 10, 20 e 30 che, se fossero stati utilmente tradotti, letti e assimilati dopo il '45, ci avrebbero risparmiato la noia e la vanità dei dibbbattiti che stavano ammorbando la letteratura di quel pe- tp"dvcvlmNmmlntmnt A lato Alberto Arbasino nel '67 e, sopra, in una immagine recente. In basso Pier Paolo Pasolini Qui a fianco manifestazione sessantottina. A destra Umberto Eco e Alberto Moravia

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