Giocoliere delle parole «tutte le cose serie della vita Io me ne sono sbarazzato così»

Giocoliere delle parole Giocoliere delle parole «Tutte le cose serie della vita Io me ne sono sbarazzato così» Ecco un brano della confessione di Marcel Duchamp, rimasta per 35 anni inedita e pubblicata ora in Francia dall'editore André Dimanche. A partire daH'«ammollimento» dell'oggetto praticato nelle loro tele da pittori come Tanguy e Dali, Duchamp parla delle sue personali scelte. Esemplificando, anche in questo caso, con la scelta delle parole. ~w~|N primo luogo, ho avuto I un periodo completamenI te cubista che terminò nel I 11914 o anche un po' pri* Ima, nel 1913. E tutto quel che ho fatto, in ogni modo, è una sola cosa, che mi interessava: introdurre, per l'appunto, elementi che non erano del dominio retinico di cui parlavamo. Questo problema per me è stato molto duro perché non avevo nessun punto d'appoggio. Spesso quando si dice «Il Tale è influenzato dal Talaltro», è facile, perché l'influenza serve molto, dopo tutto. Anche se si deforma l'in¬ fluenza con la propria personalità, è pur sempre un'influenza. E anch'io ero stato influenzato, come tutti. Quando si hanno vent'anni, non si può evitare di esserlo. Ma sin dai 23 o 24 anni, verso quell'età credo, ho voluto sbarazzarmene il più possibile, sapendo che esisteva una cosa che si chiama influenza e che può essere nefasta se è esagerata. I titoli, ad esempio, per me, sono stati basati su una forma più semplice di comprensione generale (...). Nus Vites, è molto semplice, è in tutta evidenza proprio un piacere nel giocare con le parole. Per quanto... sapete bene quello che penso, delle parole. Ma non appena vi si aggiunge della poesia o perlomeno si trasforma la parola da comunicazione in parola poetica, allora io l'accetto. Perché la parola diventa come un altro colore, se così si può dire, e non una comunicazione. Io non ho inventato la parola vite (originariamente avverbio, «in fretta», ndr) perché all'e¬ poca esisteva come aggettivo. Si diceva che il Tale, che aveva fatto la corsa Parigi-Roubaix, era vite (nel senso di veloce). Era una novità semantica dell'epoca, mi spiego? Allora io me ne sono servito con i miei nudi. Con l'idea anche, molto importante, d'introdurre il riso, nel buon senso della parola. Non il riso grossolano o la presa in giro, ma l'umorismo di una certa qualità, ancora difficile da esprimere. Io consideravo che tutto il passato - la tradizione - salvo Rabelais e Jarry, era fatto di persone serie che consideravano che la vita era una cosa seria, che bisognava produrre cose serie perché la posterità seria capisse quello che tutte quelle persone serie di quell'epoca avevano fatto! Anche di tutto questo ho voluto sbarazzarmi. Così ho usato le parole nus vites, che non erano più per niente serie. Non si trattava neppure di riderne, ma di chiedersi se mi beffavo del mondo. Nella Mariée mise à nupar ses célibataires, mime è l'indecisione che mi ha permesso il titolo, l'indecisione della parola ses («i suoi») in quel caso. La parola ses è di nuovo molto semplice: è un possessivo, una traduzione dell'idea di possesso. Ma, per l'appunto, quale sposa ha dei celibi a sua disposizione? Se volete, è un'idea - chiamatela poetica un'idea non direi incredibile, ma divertente da pensare: dirige la mente in una direzione inattesa. Ma quello che mi ha interessato ancora di più è la parola mème che segue. Mème non ha una s, non è «i celebi stessi». E' un avverbio («anche») che non ha nessun senso in quel punto, che ci sta come un capello nella minestra alla fine di quella frase. E' una cosa che ha molto interessato Breton e tutti i surrealisti, perché poi se ne sono serviti, proprio a causa di quell'indecisione, imprecisione. E però non fa non-sens, non è non-sens. Ma dà una direzione... molto inquietante. E' una vena che mi piaceva molto sfruttare, che cercavo di sfruttare. L'ho fatto in quei titoli e nella pittura stessa. Nell'esecuzione del Grand Verre, c'era la stessa idea, in tutto ciò che componeva quel dipinto: era di ottenere effetti che partissero tangenzialmente da una traduzione o da una accettazione normale di cose come «la finestra si chiude», «la porta si apre», eccetera, cose ormai note da troppo tempo, di cui non si dovrebbe mai più parlare. Marcel Duchamp

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