Il fantasma del Picconatore grande custode del Colle di Filippo Ceccarelli

Il fantasma del Picconatore grande custode del Colle Il fantasma del Picconatore grande custode del Colle AROMA NCORA Cossiga, nonostante ogni pur necessaria esigenza di visibilità. L'ex presidente, infatti, non c'è, non si vede, l'ultimo ricordo essendo affidato a quella muta e veloce camminata davanti ai microfoni, quando prima di imboccare la porta, colpito alle spalle da una raffica non proprio disinteressata di «Auguri! Auguri, presidente!», Cossiga si fermò a salutare con la mano alzata e un'espressione del volto che ai più smaliziati cronisti del Quirinale parve quella del gatto sorpreso, come si dice a Roma, «col sorcio in bocca». Era prima della Befana. Eppure ancora così, con quell'aria di furtiva soddisfazione, di circospetto appagamento, piace a parecchi di immaginare Cossiga. Che non s'è più visto, appunto, ma si sente. Presenza a suo modo ridondante, e comunque impossibile da sdrammatizzare, anche per interposta persona. Al Quirinale, dove bene o male l'ex presidente è vissuto per sette anni, ieri bastava un nonnulla per evocarlo. La faccia pensosa del senatore pidiessino Salvi, ad esempio, che al microfono pronunciava tutta la sua fiducia nelle scelte che il presidente Scalfaro vorrà effettuare. E se «gli» incarica Cossiga? veniva da pensare. Non aveva l'ex presidente donato proprio a Salvi, per dileggio, un pacco di pannolini «Pampers»? Più o meno lo stesso smarrimento che s'avvertiva osservando il fido consigliere di Scalfaro, Zolla, passeggiare tranquillamente davanti a un arazzo con due angiolini che si davano i bacetti. Non era Zolla colui che si beccò da Cossiga la pesante (e ingiusta) definizione di «analfabeta di ritorno»? Altri tempi, si dirà. Ed è vero. Ma la semplice ingerenza psicologica dell'ex picconatore nella crisi - a proposito: che ne sarà dei graziosi picconcini regalati dal missino Storace qualche anno fa? - è così forte, prevalente e ostinata da condizionare sen¬ z'altro il corso degli eventi. E' possibile, anzi, che in qualche modo Scalfaro, pure lui a suo tempo coinvolto in tempestose diatribe con il personaggio, utilizzi l'ipotesi di un incarico a Cossiga come un'arma di persuasione, un amabile spauracchio ad alta intensità emotiva. Questo almeno il sospetto. Ma è del tutto plausibile che, giorno dopo giorno, al di là dell'effetto deterrente che su molti esercita anche solo il nome di Cossiga, il Capo dello Stato abbia finito per affezionarsi alla candidatura di un uomo che non sarebbe più, a suo giudizio, quello di una volta. Certamente, raccontano, ne ha parlato a Berlusconi. Il quale avrebbe reagito con sonoro disappunto: «E' il vecchio!». Al che il sempre prudente segretario generale Gifuni gli avrebbe rispettosissimamente fatto osservare che proprio a Cossiga - con cui naturalmente pure lui, Gifuni, ebbe qualche problemino - si deve l'affossamento della Prima Repubblica. Ecco: sta tutta qui, nell'enigmatico ondeggiamento tra vecchio e nuovo, la forza e insieme la debolezza di Cossiga. Di per sé, cioè anche senza agitarsi, il personaggio rompe gli schemi del Dottore, spezza la logica improduttiva dei falchi e delle colombe e, sia pure con il dovuto ossequio e uno stile più tradizionale, è in grado di «vampirizzare» molte delle questioni - dal patriottismo, ad esempio, alla difesa della massoneria, alla diffidenza per i magistrati - che stanno a cuore al polo delle libertà. Non si spiega altrimenti la cotta che per Cossiga si sono presi - e forse non hanno ancora smaltito - personaggi a loro modo simbolici, in taluni casi addirittura antesignani del berlusconismo: Sgarbi, Ferrara, Jannuzzi, Sogno. Più in particolare, se si esclude qualche rude commento sui «Wanna Marchi» della nuova politica e un minimo di condiscendenza manifestato nei confronti del dilettante, non si può certo dire che Cossiga sia stato sleale nei confronti del governo. Tanto che al momento della fiducia, pur esternando una propensione ad astenersi non volle fargli mancare il suo voto favorevole. Al Berlusconi politico era il 18 maggio 1994, al Senato - riconobbe doti «di fantasia e di coraggio del nuovo. E lo dice uno - aggiunse con un sovrappiù di modestia autosvalutativa che è certamente tutto o quasi nel vecchio». Insomma, tutto fuorché un nemico. Ma anche tutto fuorché un alleato. Il che mette drammaticamente in crisi il palinsesto mentale e politico dì Berlusconi. E infatti eccotelo qui, Cossiga, legittimo erede e forse beneficiario della più immaginifica inventiva democristiana, eccotelo qui pronto per un governo che via via può essere «super partes», «istituzionale», «tecnico», «del presidente», e perfino «dei miracoli» (guai, d'altra parte, a evocarli con troppa facilità, i miracoli). Oppure un bel governo qualificato come «elettorale», ma che si dimentica di mettere per iscritto quando si dovrebbero tenere 'ste elezioni. Vatti a fidare di un terzo governo Cossiga. Lo stesso, terribile imbarazzo del pds, che due anni fa se lo sarebbe mangiato vivo, attutisce e depotenzia di parecchio le efficaci semplificazioni del «tradimento» e del «ribaltone». L'ex presidente della Repubblica, certo, incontra comprensibili e forse anche insormontabili resistenze a sinistra. Ieri, a Montecitorio, Sandra Bonsanti, che come giornalista di Repubblica se l'è trovato tante volte come oggetto dei suoi articoli, e che oggi è deputata, si mostrava ragionevolmente perplessa. «Se Cossiga è Cossiga - diceva alla fine - non ha bisogno del mio voto». Eppure non è pensabile che un intero partito se la possa cavare in questo modo. Sull'ipotetico governo Cossiga, d'altronde, già circolavano naturalmente fantastiche liste di ministri: da Eco a Rubbia, da Veronesi a Di Pietro. In realtà, a giudicare da quel che ha fatto l'eventuale presidente del Consiglio nell'ultimo anno, a rigor di logica la compagine si connoterebbe per la sua indubbia resistenza ad ogni classificazione. Il 1994 ha visto un Cossiga quasi più anarchico che individualista. A Roma ha votato sia Fini che Rutelli, e alle elezioni due volte di seguito per il pds. Ha scritto la prefazione per il libro di Di Pietro, e poi l'ha ritirata. Ha difeso Citaristi, litigato con Maroni e si è fatto querelare da Rosi Bindi. Posto di fronte al dilemma tra turno unico e doppio turno, ha detto: tre turni. Ha poi teorizzato la diarchia (con Scalfaro), difeso la lottizzazione e spiegato, compunto, che «oggi in Rai solo il segnale orario e le estrazioni del lotto sono obiettivi». S'è definito più volte «un cattolico peccatore». Ed è tutto un programma. Filippo Ceccarelli E pensare che a maggio Cossiga promosse il Cavaliere: «Ha doti di fantasia e di coraggio» tore e E pensare e a maggio promosse Cavaliere: di fantasia i coraggio» La «televenditrice» Wanna Marchi A destra Michele Zolla, consigliere del Quirinale

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