Come non si prende una città di Mimmo Candito

Come non si prende una città Come non si prende una città Gli errori da manuale del primo blitz russo LA CAPORETTO DEI CORAZZATI LA notte del 28 febbraio del '91, quando le truppe corazzate americane e anglofrancesi stringevano la tenaglia verso Nassirya per chiudere in una sacca l'esercito iracheno in fuga, lo Studio Ovale della Casa Bianca ospitò un rapido top meeting: la difesa di Saddam cedeva troppo velocemente, e bisognava decidere subito come continuare la guerra. Con Bush c'erano il segretario di Stato Baker, Don Cheney, ministro della Difesa, e Colin Powell, capo di Stato Maggiore. Due linee si confrontavano: Baker esponeva i rischi politici di una possibile frantumazione dell'Iraq, Cheney illustrava invece la necessità di portare a compimento il lavoro militare; Powell taceva. Quando Bush gli chiese un'opinione su quanti soldati americani sarebbe costato un attacco a Baghdad, il generale nero rivelò che uno studio era stato già fatto dal Pentagono: «Potremmo perdere fino a 5 mila uomini, tra morti e feriti», disse, senza nemmeno guardare le sue carte. Bush, che voleva essere rieletto, e fino a quel momento aveva un bilancio di appena 123 morti, annunciò subito la fine della guerra del Golfo. E' difficile immaginare che Eltsin, anche lui, non voglia essere rieletto. Ma certo la bestialità tattica dell'assalto portato giorni fa dentro Grozny, con le immagini tv dei carri armati russi in fiamme e quelle successive dei soldati-bambini che confessano la loro nuova prigionia cecena, gli costerà molto in consensi e appoggio. L'Armata Rossa battuta da qualche migliaio di soldati e di partigiani è stata un'onta militare, e il ricordo dei 18 mila uomini morti in Afghanistan torna ad aprire nella società civile di Mosca contrasti duri con il potere. L'arrivo in Cecenia di formazioni speciali fa pensare che ora la guerra per il controllo di Grozny sia davvero alla fine, ma la Battaglia di Capodanno verrà comunque raccontata nei manuali militari come un caso esemplare di tutto quello che non dev'essere fatto. Una ricostruzione attendibile della Battaglia dice che all'alba del 1° gennaio una colonna di quasi 200 blindati, assistita da una decina di tank della 104a divisione paracadutisti, si apriva una breccia nella difesa cecena e penetrava nella capitale. Senza stupirsi troppo della scarna resistenza che incontravano lungo l'avanzata, i Bmp e i Bmd sferragliavano dentro le strade deserte della prima luce del mattino e cercavano la direzione del palazzo presidenziale; quello sarebbe stato l'ultimo giorno della piccola guerra caucasica. Ma erano illusioni, la difesa che cedeva senza quasi combattere stava creando una gigantesca trappola. I ceceni avevano semplice¬ mente attirato la colonna su un territorio che i soldati russi non conoscevano: e, dopo averli fatti spingere ben dentro la città, con attachi veloci e improvvisi sganciamenti dividevano la colonna in tronconi ciechi, che restavano impantanati tra strade strette e palazzi vuoti. I blindati cercavano di difendersi con i cannoncini da 73 mm, in alcune sacche i T72 tentavano di districarsi dall'agguato; ma divisi in formazioni di 30 uomini, ciascuna con una decina di lanciarazzi Rpg-7 anticarro, i ceceni accerchiavano e distruggevano gran parte dei cingolati presi in trappola. Di colonne corazzate attirate dentro le città e poi annientate facilmente dai difensori è piena la storia militare; e gli ufficiali russi, che qualcosa dovevano saperne se soltanto si fossero ricordati della trappola afghana (per non voler risalire fino all'invasione della Finlandia, nel '39), mai avrebbero dovuto accettare di sgranare la loro linea d'attacco lungo un terreno incerto, controllato ancora dal nemico. «Armiskij Sbornik», rivista teorica dell'esercito, tempo fa ha anche pubblicato un saggio su come condurre una battaglia dentro una città: l'autore, il colonnello Vladimir Shamshupov, mettendosi dalla parte dei difensori spiegava come preparare la trappola per la colonna dell'invasore, come frenarne l'avanzata, e poi come tagliarla in tronconi per attaccare e sconfiggerla «a livello di battaglione». Dopo Grozny, pare probabile che quel saggio l'abbiano letto i ceceni, non gli ufficiali russi. Sui carri intrappolati, e poi distrutti, Nanni Loy creò una memorabile sequenza de «Le quattro giornate di Napoli»; e sui tank sovietici finiti nelle strettoie delle città nemiche, e lì sbaragliati dalla mobilità dei difensori e dai loro lanciarazzi, i romanzi della fiction politico-mili¬ tare che negli anni passati raccontavano l'inevitabile guerra tra l'Occidente e l'Urss hanno sempre avuto pagine molto efficaci, dall'«Uragano Rosso» di Tom Clancy al celeberrimo studio del gen. Hackett su «La terza guerra mondiale». Evidentemente né Clancy né Hackett hanno ancora circolazione nella Russia di Eltsin, e il ritardo pare ora costare caro all'esercito di Mosca. Ma, certo, le ragioni di una sconfitta vanno cercate ancora più dentro l'anima di questa piccola guerra. Da una parte c'è che la disperata volontà dei ceceni di resistere all'invasione si confronta con un'Armata Rossa oggi allo sbando, con soldatiragazzini che non hanno nessuna voglia di morire e con generali attenti più alle beghe di potere che non alla ricostruzione di una macchina militare obsoleta. Ma dall'altra c'è anche una ragione dottrinaria, legata alla formazione che gli ufficiali russi ricevono alla scuola di guerra: «Taktika», il loro testo fondamentale, è vecchio, scritto ancora nei tempi brezneviani, e discetta sulle battaglie in campo aperto, trascurando l'insegnamento dello scontro in un terreno chiuso. La guerra in Cecenia, e la resistenza nelle sue montagne, dureranno a lungo, anche dopo la caduta di Grozny; ma intanto è probabile che «Taktika» venga sostituito. Mimmo Candito Dimenticata la lezione di Kabul Le colonne di tank si sono lasciate disperdere in piccoli gruppi Dall'Afghanistan alla Cecenia, le forze corazzate russe mostrano di saper operare in spazi aperti ma non in montagna né in città