ANCHE I CECENI DI TOLSTOJ NON CEDEVANO AI RUSSI
ANCHE ICECENI DI TOLSTOJ NON CEDEVANO AI RUSSI ANCHE ICECENI DI TOLSTOJ NON CEDEVANO AI RUSSI folstoj e, sopra, Lermonlov to vive, quelle che i grandi scrittori russi dell'Ottocento si incaricarono di fissare nella coscienza dei propri lettori. Degh indomabili guerrieri caucasici, in particolare di quelh' ceceni, è infatti piena la letteratura russa, una letteratura che non poteva non sentire altresì il fascino di una regione a lei «esotica»: piatta, uniforme, ampia, fredda, irreggimentata la Russia, mon¬ tuoso, frammentato, impenetrabile, temperato e, soprattutto, libero il Caucaso. Alle origini della prosa realistica russa fu Michail Lermontov a descrivere il suo Eroe del nostro tempo come un tormentato ufficiale che cerca se stesso nell'avventurosa vita della guarnigione caucasica, nel rapimento di una principessa circassa, nel rischio mortale affrontato per catturare un assassino. Il tono qui è ancora largamente romantico, gli avversari del giovane eroe sono innominati «diavoli pelosi» della Cecenia. E qualcosa di questo mito rimarrà ancora nei tratti di Chadzi-Murat, l'indomito montanaro dallo sguardo infantile che Lev Tolstoj elevò a protagonista dell'omorumo racconto completato - ma non rivisto giusto 90 anni fa. Tolstoj, tuttavia, non si limitò a fermare sulla sua inimitabile pagina il conflitto tra chan tartari e guerrieri santi dell'Islam, tra una russofilia obbligata e un'intima avversione dei montanari caucasici per quanto v'è di slavo. No, il Tolstoj antizarista e antimilitarista non poteva non mostrare in questo racconto l'autentico volto della guerra, la sua crudeltà, il suo disumano e quasi burocratico procedere: un ragazzo morto, due pagliai incendiati, gli alberi da frutto bruciati, «e, peggio di tutto, le arnie date alle fiamme, con le api dentro». Questa ordinaria distruzione che è la guerra, questi morti che non riceveranno neanche una menzione nel rapporto di giornata, cavano al lettore di Tolstoj un grido che le televisioni oggi non riescono più a provocare. E provocano anche, le scene di guerra di Chadzi-Murat, un sentimento di attonito orrore. «Il sentimento che tutti i ceceni, dal primo all'ultimo, avevano dentro, era più forte dell'odio. Era, non odio, ma un senso che questi cani dei russi - chi scrive è il russo Tolstoj - non fossero uomini, e una tale avversione, un tale ribrezzo, un tale sbalordimento di fronte all'assurda ferocia di questi esseri, che il desiderio di sterminarli, come il desiderio di sterminare i topi, i ragni velenosi, i lupi, diventava un istinto tanto naturale, quanto l'istinto di conservazione». In diretta contrapposizione con questi uomini-lupi, sta il ceceno morto cui Tolstoj riserva mezza pagina di veridica de¬ scrizione in uno dei suoi primi racconti, 1 cosacchi. Non a caso, infatti, il cadavere provoca nel soldataccio russo l'ammirata e significativa esclamazione: «Era un uomo anche lui!». Oggi come ieri, ai ceceni sembra data in sorte la medesima alternativa: sottomettersi o morire. «Meglio morire in lotta coi russi, che vivere cogl'infedeli», diceva il proclama di Shamil ai caucasiani. E con disincantata considerazione degli esiti temporanei della pax russa, Aleksandr Puskin chiudeva il suo Prigioniero del Caucaso: «Si è chetato il feroce grido di guerra: / Tutto è sottomesso alla spada russa». L'epilogo di Chadzi-Murat è assai diverso, meno scontato. Tolstoj vi stabilisce un'analogia tra i guerrieri del Caucaso e il robusto cardo tartaro. «Che razza di energia - commenta osservando un maggese arato in cui, unico, si è salvato appunto un cardo ferito, infangato ma sempre eretto verso l'alto -; tutto è stato vinto dall'uomo, milioni di piante ne sono state annientate, ma lui, qui, non s'arrende ancora». Giuseppe Ghini
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