DE LIBERO AL VETRIOLO SUI LETTERATI D'ITALIA

DE LIBERO AL VETRIOLO SUI LETTERATI D'ITALIA DE LIBERO AL VETRIOLO SUI LETTERATI D'ITALIA Gli anni '33- '55 nel «Diario» del poeta e gallerista CROMA HE facce stupide, gli scrittori italiani! Soprattutto se visti in gruppo, riuniti intorno a un tavolo. Un lettore, capitato per caso nell'illustre consesso, avrebbe veramente di che sbellicarsi dalle risate: no, non piacevano allo scontroso poeta Libero de Libero, nato nel 1903 in provincia di Latina e scomparso nel 1981, i «colleghi», né la società letteraria italiana. Non gli piacevano, in particolare, quando, indossati (metaforicamente) tocco e mantello, diventavano i giudici (e anche i giustizieri) di altri scrittori. Nel suo perfido diario - che adesso esce dalla Nuova Eri a cura di Lorenzo Cantatore e con la prefazione di Mario Petrucciani Borrador. Diario 1933-1955 - de Libero, senza nessuna indulgenza, annota oltre vent'anni di vizi e di virtù dei protagonisti della vita culturale e politica italiana. E bolla con parole di fuoco l'iniziativa di due «compagni», due «scrittori mediocrissimi» che nel 1944, volendo fondare «un'unione degli scrittori italiani», si proponevano di epurare autori accusati di essere stati fascisti: ma si trattava di scrittori come Bontempelli, Ungaretti, Cecchi. Quand'anche epurati o epurabili quegli scrittori restano scrittori. Allora? E' il 1945 l'anno cruciale, l'anno della rivelazione in cui de Libero matura la radicale diffidenza per il ceto intellettuale, in mesi frenetici, a Roma liberata. I giorni si riempiono di notizie (((Anna Achmatova, la poetessa russa, è viva, ha ripreso a pubblicare»), la radio scandisce le varie tappe della guerra di liberazione al Nord, e la pace nel mondo a volte sembra vicinissima, altre volte molto lontana. Il poeta - che era arrivato nella capitale da Fondi nel 1927, un vero provinciale con le sue scarpe di coppale che poco o nulla sapeva della vita della grande città e, poi, dal 1935, aveva cominciato a dirigere la famosissima Galleria della Cometa, dove avevano esposto artisti come Scipione, Mafai, Raphael, Savinio, De Chirico, Guttuso - vede crescere la personale ostilità per ogni tipo di opportunismo. «In quegli intellettuali (dico scrittori e artisti) smaniosi di politica la confusione delle idee arriva al ridicolo. C'è una smania di deputatismo in questi messeri, un'avidità di posti ben retribuiti e di cariche a stipendio, altro che aiutare la galassia disagiata. Parlo degli intellettuali di bassa forza che per essere liberali o sinistrorsi dimenticano facilmente lo scopo spirituale del rinnovamento». Fortissimo è il rammarico e il senso di colpa per essere stato iscritto al Partito Nazionale Fascista, ma ugualmente forte è il rifiuto per ogni tipo di violenza e il disgusto per la ridda degli interessi, dei giochi di potere, delle consorterie anche tra gli scrittori di sinistra, quelli che dicono di essere più vicini agli interessi del «popolo». Lo sguardo stesso distratto, i sottili baffetti da commissario di pohzia, tormentato da quello che considerava il segreto della sua «diversità» (per cui il poeta Dario Bellezza, reo di aver rivelato pubblicamente la sua omosessualità, rischiò la querela), de Libero aveva dato al primo dei suoi quaderni del diario, portatogli in regalo dai coniugi Afro dalla Spagna, un titolo che ben si adattava al suo modo di essere, un po' sottotono, malinconico, segnato da molta modestia: «Borrador» ovvero «brutta copia, minuta». Scrittore anomalo, fuori dai gruppi e dai partiti, de Libero nel secondo dopoguerra si ritroverà corteggiatissimo dal pei, verso cui avrà simpatie senza prendere mai la tessera. Autore prolifico di numerosi volumi di poesia («Solstizio», 1934; «Testa», 1938; «Di brace in brace», 1971)ma anche di narrativa, tra cui ((Amore e morte» e «Camera oscura», la sua opera non solo non è arrivata al grande pubblico ma, come diceva lui stesso con amarezza, non è mai stata riconosciuta «né dalle alte né dalle basse gerarchie letterarie». E allora, quasi per rifarsi dello scacco che la società letteraria gli infliggeva trascurandolo, l'acuto cronista nel suo «Journal» diventerà un impietoso vendicatore (le pagine degh inediti del diario arrivano fino agli Arnii Ottanta). Una storica foto ritrae de Libero nel settembre del 1948 al caffè Greco, dove l'intellighenzia italiana sembra schierata quasi al completo, da Palazzeschi a Petrassi, da Afro a Vespignani, da Penna a Mafai, Flaiano, Brancati, con personaggi dello spettacolo come Lea Padovani e Orson Welles. «Ero arrivato allora al caffè Greco, dove un fotografo di "Vogue" aveva radunato scrittori, pittori, musicisti, amici, per farne un gruppo da pubblicare. Ma nessuno sapeva che doveva fi- «Pro-Sa» o come meglio piace a Guido Accornero «Prosa»; è la nuova «società di esercizio e gestione» nata dalla testa (e dal cuore, perché no?) della Fondazione Salone del libro (presieduta da Gian Paolo Brizio) e dalla Sinapsi (1/3 Finpiemonte, 1/3 Ocsea, 1/3 Accornero): 600 milioni di capitale, il 70% della prima, il 30 della seconda. Presidente di «Prosa»: Carlo Poggio (FinPiemonte); consiglieri Accornero, Pezzana, Giovanna Recchi, Richelmi più Sergio Borsi e Alberto Conte. Accornero dovrebbe essere nominato (sarà) amministratore delegato. Cioè, come sempre e come tutti desiderano, padrone della situazione. Che, ad Accornero, appare notevolmente migliorata perché la nuova società - che ha allo studio, oltre al prossimo Salone di Tarino ( 18-23 maggio, tema di fondo: il 95% del '900), altre iniziative - permetterà una programmazione a lungo termine e offrirà il massimo di sicurezze agli editori. E, soprattutto, solleverà proprio Accornero dal ruolo certo non comodo di unico responsabile per tutto e per tutti. Intanto il Salone, con il «Vero e il Falso» dell'edizione '94, sta preparandosi allo sbarco a New York... CENTOCINQUANTA! fa l'imperatore Nicola I, il gendarme d'Europa e della Russia, inviava nel Caucaso sempre e nuovamente infuocato uno dei suoi migliori generali, quel principe Vorontsov che si vantava di aver vinto Napoleone. Dopo altri quindici sanguinosi anni il principale artefice di quella guerra caucasico-islamica, l'imam Shamil, veniva catturato e trasferito in Russia. Se con ciò la trentennale Guerra del Caucaso poteva dirsi conclusa, la regione non poteva tuttavia considerarsi stabilmente pacificata. L'opposizione proseguì infatti per un altro quinquennio, e al primo riaccendersi della guerra russoturca per il possesso della regione, i montanari presero nuovamente le armi; fu poi la volta della questione armena che, ravvivata periodicamente da inauditi massacri soprattutto da parte dei Turchi, continuò ad occupare la scena europea ancora per molti anni; ai primi del nuovo secolo l'intero Caucaso divenne focolaio di una guerra civile, guerra che doveva ripe- Ma non si esagera con i libri sulla mafia? Questo Capire la mafia, in uscita a fine gennaio per La Luna, è necessario. Perchè destinato ai giovani, agli studenti. Amelia Crisantino, insegnante e sociologa, ha cercato «con ottimi risultati», come scrive Tranfaglia nell'introduzione, di raccontare «come è nato il problema mafioso, come è stato analizzato» da italiani e stranieri, «come ha interferito nelle vicende della storia postunitaria e infine quale è la situazione odierna...». tersi all'atto dell'instaurazione del potere sovietico. La storia più recente registra ancora sommosse, famosa quella del 1935, attacchi contro minoranze, guerre per la liberazione di «popoli fratelli» confinati in lontane enclaves, fino all'ultima guerra russo-cecena. Russi contro ceceni. Le scene diffuse oggi dalle televisioni richiamano altre scene, altrettan- Ungarctti, De Libero e Cecchi. Nel riquadro: De Ubero. A dest.: Pasolini, la Magnani, Moravia, dietro Laura Betti e Arbasino Nella Morante «non c'è l'ispirazione», com'è «fragile l'impalcatura della popolarità» di Moravia e Pasolini, un «atto di vanità» il suicidio dì Pavese gurare in mezzo noi Orson Welles, e così abbiamo fatto da squisito contorno a quella bistecca d'asino che è il signor Welles genio a forza di dirlo e di ripeterlo a se stesso». Gli italiani sono il «contorno» alla bistecca Welles, ma de Libero rifiuta di fare da aggiunta al piatto forte: l'annotazione di questo episodio rispecchia il suo più consueto stato d'animo, pronto a mettere sotto tiro perfino gli intoccabili. Come, per esempio, il Migliore, Togliatti, tratteggiato in un atteggiamento poco edificante ed arrogante, che sollecita la riflessione dello scrittore su quale possa essere la vera faccia del comunismo: ((Annunciato con la gran cassa della stampa comunista è arrivato a Roma Paul Eluard, definito grande poeta della Resistenza - scrive il 6 aprile 1946 - il salone del "Ritrovo" era zeppo di pubblico e specie di giovani e non giovani comunisti; Palmiro Togliatti completava l'apparato del partito. Povera Sibilla (Aleramo, ndr.) che si alza per salutare il capo del partito e il capo rimane seduto e le concede il permesso di sedergli accanto. Arriva alla fine il poeta Eluard che si siede, inforca gli occhiali... Ricorda i martiri della Resistenza francese e italiana, poi attacca un discorso sulla libertà, sulla verità, sulla poesia che è libertà...; ma il suo discorso è al servizio del partito (...). E io mi ricordavo dei suoi versi d'amore, di quando era l'uomo che cantava le sue angustie amorose in una poesia frantumata, singhiozzata quasi... E mi guardavo il profilo di Togliatti col sorriso grigio e squallido, chiedendomi se veramente ammettesse la libertà dell'individuo o se pure lui finirà col togliere la libertà a tutti costringendo gli oppositori al carcere e alla morte». Anche in campo letterario non esistono mostri sacri, intellettuali famosi nei confronti dei quali de Libero si senta a priori rispettoso od ossequioso. Certo, ci sono scrittori molto amati, come Palazzeschi o Savinio o la Manzini, che vengono risparmiati dai suoi giudizi. Ma ce ne sono molti di più che vengono ferocemente infilzati per il loro stile di vita, per l'eccesso di esibizionismo, per la stupidità o la volgarità insita nei comportamenti o nella loro stessa letteratura. Così condanna aspramente il «Mestiere di vivere», il diario di Pavese, il 3 gennaio 1955, dicendo che sfoggia «una ristrettezza mentale e una cocciutaggine assai sospetta in uno scrittore che vantava capacità illi¬

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