BOCCA L'Italia in redazione di Giorgio Bocca

BOCCA LMia in redazione Dai fichi secchi al supermarket, così i giornali hanno raccontato le trasformazioni del Paese BOCCA LMia in redazione MILANO DAL NOSTRO INVIATO Che cosa è stato il giornalismo italiano dal 1945 al 1995. Come ha raccontato i cinquant'anni che ci hanno portato dalla fame al consumismo. E da De Gasperi a Berlusconi. Da Mattei a De Benedetti. Dall'effimera stagione dei fogli di partito all'epoca opulenta della televisione di massa. Quella che leggerete è la storia di un giornalista, Giorgio Bocca, che comincia la sua lunga carriera alla fine della guerra, quando mette piede, con addosso i panni dell'ex partigiano, nella redazione di GL, u fogho torinese di Giustizia e Libertà, diretto da Franco Venturi, 50 mila copie di tiratura. Tempi da pionieri. Bocca divideva con Venturi un alloggio di via Legnano, riscaldato da una sola stufetta elettrica. In redazione incrociava Carlo Casalegno e Paolo Spriano. La Stampa e la Gazzetta del Popolo erano state chiuse, perché si erano compromesse col fascismo. Gli altri quotidiani torinesi erano l'Unità con Ludovico Geymonat come capo redattore e Raf Vallone responsabile della terza pagina, L'opinione diretta da Franco Antonicelli, presidente. del Chi Piemonte, Sempre avanti! con Umberto Calosso, ex Radio Londra, H popolo nuovo, più incolore, che sopravvive sino agli Anni 60. «Devo dire che è stato un periodo di giornalismo informativo piuttosto mediocre - ricorda Bocca -, per certi aspetti quasi nullo, perché questi giornali consideravano i problemi amministrativi o la cronaca nera come fatti assolutamente minori. Però il giornalismo politico era estremamente interessante, perché ogni giorno incontravi in redazione o in tipografia tutti questi personaggi dell'antifascimo, da Calosso a Monti, da Antonicelli a Venturi, da Mila a Foà, che passavano a portare un articolo o soltanto a discutere col direttore, per i comunisti c'erano Montagnana o Pastore. Era emozionante, soprattutto per un giovane, anche per uno strano miscuglio di colleganza professionale e invece di forte contrasto ideologico. Io scrivevo di cronaca nera e facevo inchieste: sul tesoro della Quarta Armata o sul rientro dei soldati dalla Russia. Non avevamo una lira, i treni non funzionavano, ma l'atmosfera era abbastanza eccitante. «Nel '47 la svolta. Si torna alla normalità, dopo la cacciata dei comunisti dal governo. La stampa borghese si lega al potere politico, alla de, con una forma particolare di cronaca politica che si chiamava pastone. Il capo dell'ufficio romano di corrisponden- za per accontentare un'informazione non partitica e interclassista giostrava questo pastone mettendoci dentro di tutto: sia le notizie governative sia altre notizie, in modo che anche un operaio ci trovasse qualcosa d'interessante. Gorresio faceva il pastone della Stampa, con una intonazione socialdemocratica, essendo Valletta amico di Saragat. C'era Negro al Corriere della Sera, più governativo, c'era Mattei alla Gazzetta del Popolo, più centrodestra. Avevano appreso l'arte del pastone in un modo che oggi è quasi da rimpiangere. Nel senso che invece della caterva di sciocchezze che oggi si pubblicano sulla politica interna, allora tu avevi in due colonne l'informazione essenziale». Nel 1954 Bocca entra all'Europeo di Arrigo Benedetti. Che cosa rappresentava il giornalismo dei settimanali? «Per un giornalista di quotidiano l'esperienza nel settimanale - prima L'Europeo, poi L'Espresso rappresentava un'interessante scuola professionale, perché erano più liberi, facevano inchieste di indagine sociale. Io scrissi sull'Europeo le mie prime inchieste sulla mafia, quando intervistai il colonnello dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, facendo capire che c'erano protezioni governative di cui la mafia si giovava. Solo che era un giornalismo fatto coi fichi secchi: invece di tenere corrispondenti fissi in ogni Paese, come hanno Time o Newsweek, si risolveva tutto che il giovedì partivi, andavi in aereo in Birmania o in Cina, poi tornavi di corsa a fare un articolo copiato dai giornali locali». Nel 1956 nasce «Il Giorno», fondato da Enrico Mattei. Per la nostra stampa quotidiana è stata davvero una rivoluzione? «Sì, lo è stata. Non soltanto per meriti semplicemente giornalistici, di Baldacci prima o di Pietra poi, né di tutti i colleghi che c'erano andati, ma perché quello è stato il periodo della modernizzazione italiana. Partiva il Miracolo, quando francesi e tedeschi venivano a copiare il mix di aziende pubbliche e imprese private del nostro sistema. Teniamo conto che per la prima volta il fronte padronale si era spaccato, per cui finalmente mi erano concesse delle libertà enormi che prima non avevo mai avuto. Mi ricordo che Mattei mi presentò a Mancini in un linguaggio da partigiano: questo è uno dei nostri che spara- no, questo non ha paura di attaccare i ministri». Quelli erano anche gli anni della prima televisione. Il giovedì sera, l'Italia si fermava per «Lascia o raddop¬ pia?». L'aveva capito Bocca il potere deflagrante della tivù? «No. La televisione venne capita dai democristiani. Perché la de aveva l'obbedienza della maggioranza dei giornali, ma non possedeva giornali. Il giornalismo italiano era tutto di matrice laica: borghesia liberale o borghesia di sinistra. L'intuizione di Fanfani e Bernabei fu di impadronirsi della televisione, come di un nuovo strumento di consenso, e gli editori dei giornali, i vari Rizzoli, lasciarono fare con grande disprezzo». 1970, il vento del Sessantotto fischia nelle redazioni. In fumose assemblee, che sembrano copiate da quelle degli studenti e degli extraparlamentari, nasce un movimento di giornalisti democratici. Bocca ne fa parte. «Però era un movimento velleitario. Dopo piazza Fontana avevamo capito in tanti che il rapporto con le autorità costituite non era più attendibile. Avevamo la prova che c'erano dei questori e c'erano dei pm che deviavano le indagini, che insabbiavano le inchieste. Toccavamo con mano che c'era questo potere imperiale. Allora ci rendemmo conto che si sarebbe dovuta fare dell'informazione democratica. E la facemmo. Poi però la cosa scatenò la psicosi del golpe, per cui la lotta politica divenne frenetica e faziosa. I media di controinformazione, come il Bollettino che faceva Nozzoli, diventarono d'una specie di dietrismo totale. Uscì anche un pamphlet come La strage di Stato ispirato in gran parte dai servizi segreti. Poi c'erano riunioni folli. Ne diressi l'ultima, al Club Turati, dove la Castellina diceva che ci volevano mille giornali, tutti pagati con soldi pubblici. Allora, mi dissi, siamo al delirio». Ed ecco che alla fine degli Anni 70 «la rana si gonfia», come Bocca ha scritto nel libro «Il padrone in redazione». Il giornale diventa un supermarket, per usare una sua immagine. E al vecchio protagonista di tante battaglie questa stampa, troppo gonfiata, troppo televisiva, non piace troppo. Quanto questa superfetazione è responsabilità di noi giornalisti? Potevamo resistere? «Non credo. Cosa vuoi... Quando ho scritto II padrone in redazione, gli amici mi hanno detto: d'accordo, ma non esagerare, i tempi sono questi e in fondo avevano ragione. I giornali sono lo specchio dei tempi. Io l'ho visto bene nel caso di Repubblica. Conosco molto bene Eugenio Scalfari. So che Scalfari è due cose insieme: nutre le ambizioni di un grande borghese, colto, d'elite, ma anche quelle del grande editore, dell'uomo di mercato, e ho visto che in lui mano mano l'aplomb del borghese doveva fare concessioni sempre maggiori al mercato, per cui Repubblica dal disegno iniziale di 70 persone, tutte appartenenti a una certa cultura, un po' snob e di sinistra, è arrivata a un giornale di 400 persone. Adesso il Corriere pare abbia stabilito di investire 230 miliardi, perché chi è al primo posto nelle grandi città incassa l'80% della pubblicità: ecco mi spaventa questa competizione all'ultimo miliardo, perché porterà a forme di oligopolio che si riveleranno degli errori. Com'è accaduto con la televisione, nella competizione tra Fininvest e Rai. Ma nessuno è colpevole. Io vedo piuttosto una cecità generale, alimentata dalla presenza di grandi potentati imprenditoriali ed editoriali». Torniamo all'album di cinquant'anni: quali sono i giornalisti che riassumono meriti e contraddizioni di questo mezzo secolo? «Montanelli, Ansaldo e anche Longanesi: grandi esempi di un giornalismo colto e politicamente scettico. I sopravvissuti del fascismo. Dietro di loro, ovviamente, tutta la generazione nuova: Scalfari, Valli, Ronchey, Pietra, protagonisti di un giornalismo moderno ed efficace, che ha ceduto il passo a un giornalismo rissoso, in cui un Feltri dice tranquillamente che oggi Bocca non potrebbe affermarsi perché il livello si è troppo alzato!». E che cosa augura, il vecchio cronista, che nel 1995 compirà 75 anni, ai direttori della nuova generazione dei quarantenni, i Mieli, Mauro, Veltroni, Anselmi, cui ogni tanto tira le orecchie? «Io credo che Berlusconi, se potesse farlo, caccerebbe via per davvero tutti i giornalisti indipendenti. Perciò a questi direttori quarantenni io augure di durare a lungo. Perché finché durano loro duro anch'io». Alberto Papuzzi «Le inchieste sulla mafia, ipm insabbiatoti! la psicosi del golpe. E adesso la rissa» ALBUM DI CINQUANTANNI che Mattei mi presentò a Mancini in un linguaggio da partigiano: questo è uno dei nostri che spara- «Le inchieste sulla mafia, ipm insabbiatoti! la psicosi del golpe. E adesso la rissa» gpdeva giornali. Il giornalismo italiano era tutto di matrice laica: borghesia liberale o borghesia di sinistra. L'intuizione di Fanfani e Bernabei fu di impadronirsi della televisione, come di un nuovo strumento di consenso, e gli editori dei giornali, i vari Rizzoli, lasciarono fare con grande disprezzo». 1970, il vento del A sinistra la redazione del «Giorno» appena nato. A destra Indro Montanelli. sotto Italo Pietra e Enrico Mattei. In basso Giorgio Bocca

Luoghi citati: Birmania, Calosso, Cina, Italia, Londra, Milano, Montagnana, Monti, Piemonte, Russia