Bertinotti il nemico necessario

Bertinotti, il nemico necessario Bertinotti, il nemico necessario La voglia di votare lo avvicina alla destra SROMA IAMO diventati troppo importanti...». E Fausto Bertinotti fa una specie di inchino, col portaocchiali che gli penzola sulla cravatta giallocubista. Vaga per Montecitorio semideserta in attesa di complimenti. Stringe mani, se le stropiccia, dispensa sorrisi, ride, scherza, si fa serio e sotto l'occhio un po' scettico del portavoce parlamentare Scicchitano, un passettino dietro di lui, cerca pure di non recitare. Nel corridoio detto «dei telefoni», in un temerario afflato di auto-ironia, si dà perfino l'incarico: «Governo Bertinotti di garanzia». Allarga le braccia come per allacciare, affettuosamente solare, un crocchio di scaltriti cronisti. Ieri sera scivolava nel buio della piazza tutto vestito blu notte, con un cappello a larghe falde, fichissimo, eppure mimetizzato. Oggi indossa un doppiopetto grigio straordinariamente berlusconiano, però sbottonato e dondolante, unico nella sua trascurata signorilità. Non è colpa sua, ma quest'attrazione perfino ipnotica sull'abbigliamento si giustifica con il fatto che mai come nel caso di Bertinotti l'eleganza tenue dei vestiti corrisponde alla finezza rassicurante dei ragionamenti e alla più disponibile cortesia dei modi. Anche per questo, nonostante possa sem- brare ingiusto, nessuno oggi sta politicamente meglio del segretario di Rifondazione comunista. Nel senso che nessuno ne parla male e nessuno si aspetta da lui altri obiettivi che non quelli già ampiamente illustrati: lotte di piazza ed elezioni il prima possibile. Elezioni, peraltro, da cui non si capisce quanto, con il sistema maggioritario, i comunisti residuali potrebbero guadagnare. Ma tant'è. Della sinistra Bertinotti fa parte a pienissimo titolo e in assoluta buonafede. Ma è la destra, paradossalmente, che se l'è coltivato con uno strano atteggiamento utilitaristico e di paura ancestrale. E adesso lo presenta come il nemico necessario. Cosi nemico, così rosso e così comunista da risultare insolito alleato di Berlusconi e di An contro i cattivacci pidiessini e i traditori leghisti. Situazione certo complessa e perfino imbarazzante nella quale, tuttavia, il leader di Rifondazione ha l'aria di trovarsi a suo agio come solo chi è a posto con la propria elegantissima coscienza. Poiché, come canta Gaio Fratini: «Verrà l'Esercito della Salvezza/ e avrà, Bertinotti, i tuoi occhi./ Telefonando al Numero Rosso/ della tua parigina languidezza/' non si sarebbe ucciso Majakovskij./ Ma quelli, dici, erano tempi foschi...». Questi, invece, no. Visitina che in questo..."». Anche in questo, intende, vado d'accordo con Berlusconi. E si ritorna al punto di partenza, a quella sua strana figura di nemico buono, comunista utile, oppositore incoraggiato e spauracchio rispettato oltre ogni codice cavalleresco. Che effetto gli fa? Che cosa prova Bertinotti di fronte all'interesse di Fini o alle lusinghe berlusconiane? Pochissimo, prova. Basta leggergli un dispaccio di giornata in cui il leader di An «manifesta grande interesse per la posizione di Rifondazione» sulla data delle elezioni (maggio), perché Bertinotti si diffonda in una garbata, ma fredda spiegazione di tipo storico: «Non è una novità. Nella storia è successo varie volte che per ragioni opposte le opposizioni di destra e di sinistra si trovino su una posizione comune. E' fisiologico e per certi versi geometricamente inevitabile». Berlusconi? «Non mi fa ridere. Io rispetto sempre gli av- versari. Siamo stati i primi a parlare di regime autoritario. Lui ha intuito meglio di tutti che l'anticomunismo, degradato e declinato negli ultimi anni, era il motore di questa destra. Ha vinto, ma la sua ricetta di politica economica, alla prova dei fatti, è risultata disastrosa». E' arrivato anche Pannella. Bertinotti lo saluta con allegria, gli fa i complimenti. Pannella se lo trascina in mezzo al Transatlantico e un po' incurante della par condicio lo sommerge di parole. Bertinotti regge bene, con le mani dietro la schiena. A guardarlo da lontano, composto e civile, un po' viene anche da pensare alla precarietà, alla difficoltà, ai rischi di quell'opposizione già così utile alla destra. E ci si chiede quanto potrà durare, e se non abbia ragione Bertinotti a sostenere che «quando c'è un dissenso, purtroppo a sinistra scatta come un riflesso istintivo e si accusa il dissenziente di collusione con il nemico». Eccotelo lì. Ma intanto restano i tanti pistolotti televisivi, lo spazio sui giornali Fininvest, le lodi concitate di Ambra («Come mi piaci, Fausto! Come mi sei simpatico con quella tua aria così distinta e la tua erre moscia così aristocratica ed elegante!»). Quell'erre moscia che secondo l'intellettuale di destra Fausto Gianfranceschi ha narcotizzato e fatto perdere «ogni accensione» a parole un tempo infuocate come «rivolta», «rivoluzione», «rivendicazione», «liberazione». E c'è pure il fervido Meluzzi che lo trova «non bello, ma sexy», addirittura, Bertinotti. Un pezzo di sinistra, forse, che ha perso se stessa. Colta da una specie di autolesionismo per cui è bene che vinca la destra perché più cattivi sono i cattivi, più buoni diventeranno i buoni. Oppure - con Bertinotti c'è pure questo dubbio - è l'esatto contrario. E per vincere non bisogna aver paura. Filippo Ceccarelli «E' fisiologico e geometricamente inevitabile che gli opposti si tocchino» Sfila a Montecitorio: «Siamo importanti» Armando Cossutta, presidente di Rifondazione comunista rilassante alla Camera, quindi, e governo Bertinotti di garanzia. «E se dobbiamo scegliere noi - aggiunge calibrando il buonumore - Cossutta va all'Interno». I giornalisti, che stanno al gioco lievemente surreale dei pomeriggi morti, gli fanno notare che Cossutta è dell'Inter. «Io invece - e qui Bertinotti si fa solenne - resto del Milan. Per cui si dirà: "An¬