Ubu Re strillare stanca (anche lo spettatore) di Masolino D'amico
20 A Roma lo spettacolo di Jany, con Scaccia e la Fabbri Ubu Re, strillare stanca (anche lo spettatore) ROMA. «Alfred Jarry mi ha mandato la raccolta completa delle sue opere», scrisse Oscar Wilde a un amico nel 1898, due anni dopo la prima di «Ubu Roi». «E' un giovanotto assolutamente straordinario, molto corrotto, e i suoi scritti hanno a volte l'oscenità di Rabelais, a volte l'arguzia di Molière, e sempre qualcosa di curioso che è suo. Ha debuttato con una commedia chiamata "Ubu Roi"... Il punto della pièce era che tutti si dicevano "Merde" fra di loro, per tutti e cinque gli atti, apparentemente senza ragione. La commedia è stata così fischiata che Jarry è diventato famoso...». La prima farsa surrealista era nata come uno scherzo di studenti, un testo per marionette in cui a scuola Jarry aveva caricaturato un professore antipatico facendone una specie di compendio delle grettezze della borghesia francese, un pallone gonfiato (letteralmente: la marionetta doveva essere quasi sferica) avido, cinico, cattivo, sordido, osceno, collocandone le avventure in una Polonia di fantasia. In «Ubu Re», con cui si inaugurò una saga, il turpe Padre Ubu con la degna moglie come un rozzo Macbeth conquista il regno a forza di tradimenti, soperchierie, uccisioni, e conserva il potere col terrore e con una crudeltà infantile, salvo arrendersi prontamente quando lo Zar russo scendendo in campo minaccia la sua incolumità. Farcito di scatologia allegramente goliardica e di invenzioni linguistiche, proprio come dice WUde, il testo scandalizzò e allo stesso tempo divertì sin dall'inizio, ed è rimasto a tutt'oggi un appuntamento obbligato vuoi per formazioni rivoluzionario-alternative (il Living), vuoi per gruppi operanti in regimi repressivi, vuoi talvolta per registi che vogliano saggiarne la forza intrinseca, ossia la possibilità di intrattenere ancora un pubblico non particolarmente motivato. In quest'ultimo caso bisogna trovare la chiave adatta, che in un secolo le due armi principali del lavoro, ossia la sua carica di provocazione e la sua comicità grottesca, si sono inevitabilmente smussate. Ora, questa chiave non è stata, ahimè, trovata da Armando Pugliese nell'elegante spettacolo a Roma fino al 19. Perché malgrado le amorevoli cure prodigategli, e anche qualche soluzione intelligente, questo «Ubu» fallisce in quello che dovrebb'essere il principale obiettivo di qualsia¬ si avvenimento teatrale, ossia arrivare, provocare qualche reazione. In altre parole, con la sola eccezione di un momento spiritoso all'inizio della seconda parte, quando lo Zar di Giulio Farnese scende da un giaciglio e lo scopriamo in tutù e scarpine bianche da ballerina, non si ride assolutamente mai. Mai! Perfino le scoregge amplificate, compresa la gag di una loffa che atterra un cristiano ripetuta cinque volte in momenti diversi, non funzionano più: non indignano, e non suscitano ilarità. Certo la nuova versione di Enzo Moscato collabora a tanta freddezza, con il suo italiano non tanto ricreato quanto sfasato in modo tutto ce- rebrale. «Saporio» invece di «sapore», «montanare a cavallo», «manducare» per «mangiare», «Vittoriamo!» per «Abbiamo vinto!», «proprio proprissimo» e «numero numeroso»; è vero, all' Olimpico Gigi Proietti con testi di Petrolini prende risate con deformazioni di questo genere; ma all'Argentina il clima non è di ammiccante avanspettacolo, bensì di Proposta di Classico; e a parte Mario Scaccia, che alla duttilità vocale aggiunge una metamorfosi fisica ragguardevole, con cranio rasato e pancione, e eccettuato anche Flavio Bonacci, che possiede una sua grazia, gli altri interpreti, Marisa Fabbri in testa, non vanno oltre l'ululato in falsetto. E tanto strillare stanca. Di molto attivo l'allestimento ha la trovata di una scena (di Bruno Garofalo) neutra e in continuo mutamento, pareti biancastre come di una casa vuota dove dei ragazzacci si divertono a giochi selvaggi con le suppellettili che trovano; infatti i piacevoli costumi di Silvia Polidori, fra Brueghel e Giamburrasca, sono movimentati da scope e scopetti branditi come lance, attaccapanni come spade, scolapasta e imbuti come elmi. Eccellenti coreografie di Dayal Pasculli, specie una carica di cavalleria cosacca montata su sedie; vivaci musiche di Antonio Sinagra; magistrali luci di Sergio Rossi. Però malgrado tanto prodigarsi, il prim'atto (60') si svolge - parlo della prima; dopo, chissà - nel silenzio mortale dei convenuti, e il secondo (65') non ha esito molto diverso. Ci sono applausi alla fine, è vero, ma lo spirito discolo di Jarry li avrà presi come una beffa. Masolino d'Amico Marisa Fabbri: purtroppo la sua interpretazione non va molto oltre l'ululato in falsetto
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