Giallo sul silenzio del Cremlino
Giallo sul silenzio del Cremlino Giallo sul silenzio del Cremlino Nelle dacie dei nuovi potenti che ignorano il dramma L'ENIGMA DEL PRESIDENTE MOSCA DAL NOSTRO INVIATO Il Cremlino è silenzioso e deserto. Non ci sono auto nere che vanno e vengono. Mosca è ancora immersa nell'atmosfera sonnacchiosa del dopo sbornia. E' l'ultimo giorno del ponte festivo di capodanno. Sugli schermi televisivi sfilano le immagini della guerra a Groznij. Nelle lussuose dacie ex comuniste, ora abitate dai nuovi potenti, e in quelle non meno lussuose costruite negli ultimi tempi (ma ormai in proprietà privata) la festa volge al suo termine. Domani sarà un altro giorno, sgradevole, ostico per gli ospiti illustri. Tanto vale bere l'ultimo bicchiere in santa pace. Boris Eltsin tace e non si fa vedere. Anche lui è in dacia. Tace, come ha fatto spesso nei momenti di crisi. Aspetta. L'ultima volta che ho visto sfrecciare sul Kutuzovskij Prospekt il corteo delle «Zil» nere è stato cinque giorni fa. Passavano, come al solito, a centocinquanta all'ora, sollevando altissimi spruzzi di fango, il traffico immobilizzato, con l'auto della guardia presidenziale che zigzagava paurosamente da un lato all'altro della carreggiata, forse per disorientare i bazooka dei misteriosi terroristi ceceni. Tace Eltsin. Ha già detto tutto quello che doveva dire. Ma questa volta tacciono tutti gli uomini del potere. Il Cremlino ha subito una sconfitta terrificante, da annichilire. E nessuno dice nulla, nessuno spiega, nessuno giustifica. Ieri si è saputo soltanto - a cose fatte - che il premier Cernomyrdin ha convocato per un incontro riservato i presidenti delle due camere del parlamento Ivan Rybkin, della Duma, e Vladimir Shumeiko, del Consiglio della Federazione. Ma non una sola parola per informare il pubblico di quello che si sono detti. Silenzio. E già tante grazie che, almeno loro, hanno rinunciato a festeggiare per il terzo giorno consecutivo. Un altro povero stakanovista che ha lavorato è stato Jury Baturin, l'aiutante del Presidente per le questioni della sicurezza. Ha ricevuto i deputati tornati da Groznij, per sentire i loro racconti e riferirne - si presume - a Eltsin. Chissà se dirà al presidente che i soldati fatti prigionieri dai ceceni erano pieni di pidocchi e che il primo cibo caldo dell'ultima settimana l'hanno ricevuto, in qualità di prigioneri, nei sotterranei del palazzo di Dudaev. Il resto è silenzio. Salvo quello dell'aiutante personale di Eltsin, Viktor Iliushin, che ha rotto il riserbo convocando un giornalista nella propria decia e dicendogli in sostanza che «non c'è scelta, bisogna andare fino in fondo». Si capisce. Fermarsi a metà strada è tremendamente difficile e anche un tantino pericoloso. La pallina della roulette non si è ancora fermata. E, se si ferma sul numero sbagliato, può succedere che si dovrà spiegare cosa si è fatto. Vuoi di fronte alla gente, vuoi di fronte a un tribunale. Intanto meglio conservare il silenzio. Anche se è ancora da capire se è un silenzio di debolezza, oppure di forza, oppure ancora di nonchalance. Propendo per la terza ipotesi. Chi dovrebbe parlare, in primo luogo Eltsin, sa bene che tutto il potere (quale che sia la sua forza reale) è nelle sue mani. Il parlamento non ne ha. L'opinione pubblica è depressa e niente affatto disposta a scendere in piazza. Quello che sa e che può capire è una frazione infinitesimale di quanto sta accadendo. Perché dunque perdere tempo a dare spiegazioni? Se domani la Duma o il Consiglio della Federazione avanzassero pretese di controllo sulle decisioni dell'Esecutivo, si può sempre adottare la cura «ottobre 1993», dove le pillole avevano la forma di obici. Oppure - più semplicemente - ignorare le loro grida. Un diplomatico dell'Europa centrale mi ha raccontato di avere trascorso il capodanno in una di quelle dacie nei dintorni di Mosca dove erano riuniti una trentina tra ministri del governo, consiglieri presidenziali, funzionari dell'Amministrazione del presidente. «Sai, mi dice, la cosa che mi ha colpito di più è che per tutta la sera nessuno ha mai parlato di politica. Della guerra di Cecenia nemmeno una parola. Si è cantato, suonato la chitarra, bevuto, celiato, ballato. Ma ogni mio tentativo d'intavolare un minimo di discorso serio è stato stroncato sul nascere, ora con cortesia, ora con un'alzata di spalle». . Il Titanio affonda, ma l'orchestra continua a suonare. E i passeggeri dei ponti alti continuano a ballare. Pensano che le scialuppe di salvataggio, per loro, si troveranno sempre. Giuliette» Chiesa Diplomatico racconta le feste della nomenklatura. Guai a parlare di guerra
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