Le schiave di Cavour

Tutte schedate: con l'obbiettivo di salvaguardare la salute dei soldati Dall'istituzione delle case chiuse nel 1860 alla legge Merlin: una storica americana ricostruisce repressioni e slanci di rivolta Le schiave di Cavour BRANO le 20,30 di una nebbiosa serata del 1886 e, per le strette strade del centro di Bologna, sino a poco tempo prima battute dalla pioggia, la bella Erminia Saffi, bruna, alta, con i capelli che sfuggivano a ciocche dal minuscolo cappellino, andava veloce verso casa. I rari passanti correvano anche loro con il bavero rialzato e la Saffi procedeva con la gonna leggermente sollevata per non schizzare di fango il bordo ricamato. Il portamento della ventenne, il suo modo di camminare, attirarono l'attenzione di un paio di sfaccendati poliziotti che battevano le strade. Non c'era dubbio: la giovane donna «sembrava straniera», come risulta dal verbale di polizia compilato qualche ora più tardi. E poi «era sola per la strada alle 20,30». I solerti tutori dell'ordine, avendola scambiata per una prostituta, afferrata la Saffi per un braccio stavano per condurla al commissariato, dove, tra le altre umiliazioni, avrebbe subito anche quella di venire sottoposta all'esame vaginale per controllare se era affetta da malattie veneree, ispezione che poteva capitare a qualsiasi donna arrestata, anche senza nessun indizio preciso di malattia. Un gentiluomo sbucato dall'ombra ali improvviso impedì ai due di procedere al fermo. Si trattava del direttore de II Resto del Carlino, che minacciò di denunciare i poliziotti sul proprio giornale. Il gruppetto si recò a casa di un «Conte» (senza nome nel verbale) che testimoniò della rispettabilità della Saffi, che lavorava per lui come domestica. Gli agenti di Pubblica Sicurezza si presero una ramanzina e una punizione: ma solo perché uomini di elevata posizione sociale si erano mobilitati per difendere la ragazza. Per una signorina - peraltro senza macchia - che sfuggiva all'arresto e all'ispezione corporea che avrebbero sancito il suo passaggio dalle donne per bene alle «belle di notte», tante altre rimanevano impigliate in retate poliziesche, in cui non si andava troppo per il sottile, come testimonia la ricca ricerca della criminologa e studiosa di storia delle donne Mary Gibson, Stato e prostituzione in Italia. 1860-1915, in uscita dal Saggiatore. Eppure il numero delle clandestine, ovvero delle lucciole che esercitavano in libertà, avrebbe dovuto essere straordinariamente basso. Il 15 febbraio 1860 Camillo Benso conte di Cavour si era preoccupato di emanare un decreto ministeriale per regolamentare il meretricio che entrò prima in vigore in Piemonte, Lombardia, Toscana, Modena, Parma e Romagna e poi nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie nel 1861. La solerzia di Cavour nasceva da una concomitanza di cause, tra cui il bisogno di mostrare all'estero la faccia moderna ed efficiente del neonato Stato, legalizzando la prostituzione e, al contempo, assogget- tandola a rigide regole di controllo e disciplina, e di regolamentare una situazione che stava diventando esplosiva per l'ordine pubblico, la moralità e la salute della nazione e in particolare dell'esercito. A causa dell'incremento demografico (tra il 1811 e il 1911 la popolazione italiana aumentò di più del cinquanta per cento, passando da 18 a 37 milioni) e dell'industrializzazione del Paese, scemava paurosamente la possibilità di occupazione femminile e una schiera di operaie, modiste, cappellaie, maestrine, sartine, attricette si riversava nelle strade dei centri urbani per esercitare il mestiere full o part time, bazzicando soprattutto in prossimità di caserme e alloggiamenti muitari. Con la creazione delle case chiuse e delle Uste di polizia il numero delle «ragazze di vita» regolarmente registrate salì in crescita vorticosa fino al 1881, raggiungendo la punta massima di 10.422 e, successivamente, cominciò a declinare nei primi decenni del nuovo secolo. Le lucciole sfuggivano sempre più all'inquadramento delle case di tolleranza e il «regolamento Cavour» che alla sua nascita era stato bersagliato dalle numerose critiche degli «abolizionisti», tra cui Mazzini e Garibaldi, ma che rimase in vigore sostanzialmente fino al 1958, anno in cui la legge Merlin determinò la chiusura delle case di tolleranza si rivelò assolutamente imperfetto. La storia, osserva la Gibson, rischia oggi di ripetersi. L'esercito che avanza di una nuova prostituzione multietnica e internazionale solleva problemi analoghi a quelli che pose nell'Ottocento: l'ordine pubblico e la schedatura a scopi sanitari, oggi nei confronti dell'Aids, allora della sifilide. E sollecita soluzioni analoghe, come la richiesta di ritornare a prima della legge Merlin, e cioè al «regolamento Cavour», alle case di tolleranza in versione moderna, come i «love hotels» o i «quartieri dell'amore» recentemente richiesti da parlamentari, come Tiziana Maiolo, della Prima e della Seconda Repubblica. Ma un'organizzazione protezionistica, basata inevitabilmente su leggi severe, finirebbe per ripetere gli stessi errori dello statista piemontese. Infatti riconoscendo come un «male necessario» (per l'e¬ quilibrio sociale, per la famiglia, per placare gli appetiti maschili) l'esistenza delle lucciole, si mise in piedi un apparato poliziesco-medico-burocratico. Questo, non avendo la collaborazione femminile, non riuscì a raggiungere i propri scopi, si limitò a criminalizzare le ragazze di facili costumi mantenendole schiave e prigioniere della loro professione. Ma c'è di peggio: come allora non c'erano strumenti per curare la sifilide, oggi non ce ne sono per curare l'Aids. La schedatura, che non serviva nell'Ottocento, rivelerebbe la sua inutilità anche oggiLa legislazione ottocentesca si fondava su radicati argomenti (o preconcetti) culturali riguardanti le differenze tra i sessi: Cesare Lombroso, padre della criminologia positivistica, considerava le prostitute come l'equivalente femminile dei criminali, rimarcando che «la donna primitiva era raramente un'assassina ma era sempre una prostituta». Come sostenne il suo allievo Salvatore Ottolenghi, uno dei pionieri delle ricerche sulle donne devianti e autore nel 1896 di un libro dal titolo La sensibilità della donna, la prostituta era più insensibile al dolore, aveva una voce più maschile e impronte digitali più irregolari. Usando elettrodi applicati alle mani (e non solo, ma anche su lingua, naso, fronte, cosce, seni e clitoride), la prostituta si dimostrava più insensibile della donna onesta e dunque il suo intelletto, la coscienza morale, la psiche e i sensi erano in lei sottosviluppati. Basandosi su ferme convinzioni pseudoscientifiche, la legge, che si arricchì nelle successive legislature, era dettagliatissima. Le finestre delle case ospitanti dovevano essere sempre clùuse, coperte da vetri opachi, di inverno, e da persiane, d'estate: «Fisse e chiuse... sino all'altezza di due metri, misurati dal suolo interno della camera». Alle prostitute era vietata la permanenza alla finestra o sulla porta d'ingresso. Quando una donna entrava in un bordello, si privava di tutti i suoi averi, anche dei vestiti. La tenutaria del casino aveva l'obbligo di pagare la mobilia della stanza, gli abiti, la biancheria oltre alle spese per le malattie non veneree (le cure dei sifilocomi erano gratuite). I prezzi per i clienti erano fissati secondo la classe delle case di tolleranza: cinque lire per la prima, da due a cinque lire per la seconda, meno di due lire per la terza. Le «ragazze» prendevano un quarto della somma e per loro era difficilissimo, una volta entrate, uscire dalle case di tolleranza, vere prigioni senza sbarre. Il controllo vaginale per scoprire se erano in atto infezioni veniva esercitato due volte a settimana. Le prostitute facevano di tutto per sottrarvisi, dichiarandosi ammalate, mestruate, cambiando nome, per sfuggire a un atto che simboleggiava la loro sottomissione ai medici e dunque allo Stato. I medici che le avrebbero dovute curare (peraltro senza medicine adatte fino alla scoperta della penicillina alla metà del 1940) non mostravano nessuna commiserazione né simpatia umana per le truppe delle mercenarie che,-in pizzi e belletti di basso costo, spesso finivano la loro vita in povertà o preda di malattie inguaribili. Al Congresso Medico Nazionale del 1870, a Roma, un luminare, il professor Castiglioni, esprimeva «mi sentimento di profondo disgusto» quando fu chiamato a far rapporto «circa le condizioni morali e sociali di quella degradata parte del sesso che sogliam chiamare gentile». E, in puro stile lombrosiano, negava che le donne iscritte nelle liste di polizia potessero temere o detestare le «perquisizioni vaginali». Contro l'iniqua ispezione si erano però levate molte voci in difesa delle ragazze di vita, soprattutto da parte degli abolizionisti che proponevano che a sottoporsi alla visita medica non fossero solo le donne, ma anche i clienti delle case di tolleranza. Era stata avanzata l'idea, per salvaguardare l'integrità e l'onore dei frequentatori dei bordelli, di usare per l'ispezione sanitaria maschile una tenda da cui sbucavano fuori i genitali. Ma la risposta del duro «regolamentazionista» Giuseppe Sorniani era stata esplicita: «Un uomo infetto potrà contagiare appena qualche donna; ma una donna infetta può rendersi fatale anche a parecchie decine di uomini. Un uomo infetto, per regola generale, ha la tendenza a curarsi subito; la donna invece no». E poi un legislatore aveva aggiunto: «Il controllo dei maschi sani è illegale», perché lo Stato «non ha il diritto di sequestrare un cittadino indipendente». Nonostante tutti i soprusi e le vessazioni, le meretrici del XIX secolo, secondo la Gibson, dimostravano una sorprendente vitalità, flessibilità e intraprendenza. E, se c'era chi avviava un'azione legale contro il medico che le aveva lacerato l'utero con lo speculum, c'era anche chi, con il sostegno della maitresse denunciava addirittura le molestie sessuali da parte della polizia. Nel 1865 Ester Laurenti presentò una lamentela al questore di Bologna contro il direttore dell'Ufficio Sanitario, Faccioli, da parte di due sue «impiegate». Come testimoniò la diciottenne Teresa Felicirii, Faccioli la chiamò nel suo ufficio e «cominciò a farmi delle moine, a mettermi le mani in seno, giacché mi aveva fatto sedere verso di lui. Poscia mi disse che io gli ero sempre stata simpatica; si alzò in piedi, mi venne più vicino, si sbottonò i calzoni, prese fuori il suo membro e volle a forza metterlo fra le mie mani». La ragazza gli disse che «si sarebbe dovuto vergognare» e lui la pregò di non alzare la voce e la lasciò andare. A seguito di analoghe rimostranze il Faccioli venne esonerato dall'incarico. La figura letteraria della meretrice povera, ignorante, mconsapevole non corrisponde sempre a verità e si affianca a quella di «signorine» determinate che, in alcuni casi, non mancavano di ardimento e coraggio. Erano le antenate, sostiene la Gibson, quanto a consapevolezza di sé e del proprio mestiere, delle moderne e combattive prostitute organizzate in Italia nel Comitato per i diritti civili. Mirella Serri Tutte schedate: con l'obbiettivo di salvaguardare la salute dei soldati E Lombroso stabilì che erano diverse dalle donne normali Condannate a vita al loro «mestiere» e a umilianti ispezioni corporali > oro professione. Ma è di peggio: come uno dei pionieri delle ricerche sulle donne A sinistra, una vignetta satirica che ritrae il conte Camillo Benso di Cavour. Sotto e a destra, classiche immagini da «casa chiusa»