Alluvione, un anno dopo Punto-chiave: ripulire i fiumi Alvei e sponde in ordine assorbono la piena

Punto-chiave: ripulire i fiumi Punto-chiave: ripulire i fiumi Alvei e sponde in ordine assorbono la piena SEI novembre 1994: l'alluvione colpisce il Piemonte e soprattutto le Langhe. Città e paesi devastati, la campagna stravolta dalla furia delle acque e dalle frane. E' uno choc: si scopre un territorio del tutto indifeso, quasi nel Duemila e a due passi da Torino, città della tecnica. Le autorità di Stato hanno parla'o di una catastrofe naturale. Ma non meno catastrofica è stata la cura del territorio. Certo 220 millimetri di pioggia in 72 ore sono molti. Ma l'intensità di caduta, in Italia, può essere molto più violenta (alcuni record: 340 millimetri in d ore, Liguria, 1970; 570 in 5 ore, Carnia, 1983). E' vero che le colline delle Langhe sono geologicamente instabili. La struttura è a «monoclinale», formata da strati di roccia paralleli e inclinati. Ogni collina presenta così due facce: un pendio morbido e allungato contrapposto a un fianco ripido, quasi verticale. Di qui il carattere del paesaggio langarolo: dolce e aspro assieme. In caso di piogge torrenziali, lungo i versanti a pendio gli strati marnosi tendono a scollarsi da quelli sottostanti di arenaria. Immense zolle di collina possono allora slittare a valle. Sugli altri versanti, è lo scorrimento dei torrenti, scalzando la fragile base delle pareti più ripide, a provocare crolli improvvisi. E' un territorio malleabile, in movimento: e sono proprio le frane - «di scivolamento» o «di crollo» - e l'erosione dei molti corsi d'acqua che lo incidono profondamente, a modellarne le forme: la bellezza del paesaggio nasce anche da lì. A parte l'estetica, frane ed erosione fanno delle Langhe un territorio potenzialmente minaccioso. E' un paesaggio difficile da vivere, persino pericoloso, se non se ne conoscono a fondo la morfologia e i movimenti. Per Quello che restava del ponte di Chivasso (nei pressi di Torino) dopo il crollo nella notte del 5 novembre 1994. La melma lasciata dal Tanaro a Clavesana, in provincia di Cuneo (Foto Benedetto Camerana) abitare le Langhe e le piane circostanti bisogna saper guardare ai luoghi, studiarne i rischi, non certo imprevedibili. Entrano allora in gioco le colpe di una urbanistica spesso distratta, quasi cieca alle differenze geologiche tra una località e l'altra. Una pianificazione quantitativa e non qualitativa consente e talvolta promuove l'urbanizzazione di un terreno inondabile come la costruzione di abitazioni in prossimità di un pendio franoso. Per l'alluvione è stato molto facile colpire soprattutto lì, dove si sono perse la cultura de) territorio e l'attenzione ai luoghi, dove si è abbassata la guardia davanti ai pericoli di sempre. Ma gli errori dell'urbanistica non spiegano tutto. L'alluvione ha colpito duramente anche nel cuore degli abitati più antichi, in luoghi da sempre ritenuti sicuri. Interi quartieri di Asti e Alessan¬ dria sono finiti sott'acqua. A Canelli il centro storico è stato totalmente devastato da un'unica onda alta tre metri. La pioggia torrenziale, la fragilità geologica, la cattiva urbanistica non sono dunque motivi sufficienti. Si è detto come l'uso estensivo dell'asfalto per piazzali e grandi parcheggi possa accelerare lo scorrimento dell'acqua piovana. Ma le cause di una simile catastrofe vanno cercate anche altrove: soprattutto nei fiumi e sulle loro sponde, che non hanno più conosciuto le tradizionali cure di ordinaria manutenzione. Sono argomenti controversi: dragare o no l'alveo? Pulire le sponde dalla boscaglia o lasciarle allo stato di natura? Nei giorni successivi all'alluvione si è scatenata una raffica di denunce incrociate: verdi e non verdi si accusavano a vicen¬ da delle colpe del disastro. Si è anche parlato di una violentissima ondata, provocata dallu troppo ritardata apertura di una diga, che avrebbe devastato il corso del basso Tanaro. Ma le «dighe» che a detta di tutti sembrano aver prodotto i maggiori danni sono quelle naturali, casuali: immense cataste di tronchi e fango ammucchiati dalla corrente contro un ponte o un altro ostacolo hanno finito per ostruire parzialmente questo o quel fiume. Ne sono derivati improvvisi cedimenti: di qui le tremende ondate di piena. Così è stato a Santo Stefano Belbo, dove un lago tumultuoso ha scavalcato il ponte e l'immenso sbarramento di alberi da questo trattenuti, per devastare poi Canelli, pochi chilometri a valle. Ma così è stato anche per la Bormida di Millesimo, per il Tanaro alla diga di Clavesana, per lo stesso Belbo a valle di Canelli. A distanza di tempo le opinioni si sono in parte chiarite, anche per via dell'intervento di specialisti. Escludendo a priori le follie delle cementificazioni e i prelievi incontrollati di ghiaia, si scopre allora che la pulizia meccanica dell'alveo di un fiume può essere un'operazione utile per quei tratti che presentano una forte sedimentazione, purché l'azione delle draghe sia controllata e limitata. Allo stesso modo, una moderata azione di disboscamento periodico delle sponde fluviali - la gestione a ceduo, l'abbattimento selettivo delle piante più deboli, lo sfoltùnento del sottobosco - sembra poter ridurre l'eventualità delle dighe formate dagli alberi strappati dalla piena. Viceversa, si è poi sottolineata l'importanza del rimboschimento delle aree abbandonate dall'agricoltura tradi¬ zionale (vigneti, noccioleti) che garantiva una buona regimazione dell'acqua piovana. Tutte operazioni di manutenzione del territorio che negli ultimi vent'anni si sono sempre più diradate. A un anno dall'alluvione poco si è fatto sia per rimediare ai danni subiti dal territorio sia per ovviare agli errori di gestione. La scarsità e la lentezza dei fondi e la mancanza di coordinamento tra le diverse competenze ostacolano gli interventi. Se le infrastrutture e i servizi primari sono stati in gran parte ripristinati, molti fiumi e molte colline portano ancora i segni di quella catastrofe: alvei sollevati, sponde erose o crollate, frane incombenti. E' un paesaggio ancora ferito, fragile. Certamente più debole di un anno fa. Benedetto Camerana Una protesi digitale e automatica LE protesi acustiche si evolvono: dall'amplificazione indifferenziata dei suoni si è passati gradualmente all'amplificazione personalizzata. Ora la tecnologia fa un altro passo avanti: protosi automatiche, con amplificazione non lineare (selettiva), e suono completamente digitalizzato grazie a un piccolissimo computer incorporato. Capostipite di questa tendenza è la protesi DigiFocus Oticon: contiene un chip potente quanto un personal computer con processore 486 e pesante solo quattro grammi; il Dap (Digital Audio Processor) ha una capacità di calcolo di 14 milioni di istruzioni al secondo, con cui elabora le informazioni in arrivo da un vicino sensore che misura il suono 50 volte al secondo, controllando 150 parametri; a ogni rilevazione Dap decide se l'ambiente acustico è cambiato e se è il caso di regolare i volumi a seconda delle frequenze critiche. Questo tipo di amplificazione (detta non lineare) non aumenta in modo uniforme tutti i volumi ma tende a rafforzare solo i suoni deboli. Il problema tecnico e audiologico delle protesi acustiche è infatti quello di integrare esattamente l'udito dell'individuo, la cui debolezza può riguardare alcune frequenze, d'i solito quelle alte cne corrispondono ai suoni più acuti. Come è facile notare nelle sordità leggere, può succedere di non distinguere le paror le, di confondere alcune lettere, ma allo stesso tempo di essere infastiditi dai rumori forti. E un cattivo bilanciamento dei suoni può provocare un rifiuto della protesi. Il suono, ricevuto da un microfono miniaturizzato, viene convertito in forma digitale, che garantisce una maggiore ricchezza di toni, poi analizzato secondo sette bande di frequenza. Il Dap viene programmato in modo personalizzato in base alla perdita uditiva con l'ausilio di un «sistema esperto» che calcola la giusta taratura. La messa a punto dell'apparecchio, in stretta collaborazione con il tecnico audioprotesista, dura circa un mese (durante il quale l'utilizzatore è invitato a tenere un diario). DigiFocus è il primo apparecchio acustico digitale c automatico (senza necessità di ulteriore regolazione da parte dell'utilizzatore): è una piccola rivoluzione nel suo campo, anche per la riduzione del voltaggio della batteria, portata da 3,3 a 0,9 volts, che consente duecento ore di autonomia. Progettato al Centro di Ricerca Oticon di Eriksholm (Copenhagen) da un'equipe internazionale di audiologi e tecnici in collaborazione con il National Acoustic Laboratory di Sydney, sarà prodotto in versione retroauricolare e endoauricolare, cioè portabile all'esterno o all'interno dell'orecchio. La protesi interna può risultare più accettabile perché meno visibile, ma si adatta solo a sordità non gravi. Generalmente gli utenti indicano al primo posto tra le qualità richieste a una protesi acustica l'efficacia, poi la robustezza. Il fattore estetico appare secondario, ma costituisce un'altra causa per cui molti adolescenti si ostinano a non usare la protesi acustica pur avendone bisogno (così come si può rifiutare la propria immagine con gli occhiali da vista). Se la perdita uditiva supera i 35 decibel, di solito viene consigliato un apparecchio acustico; in Italia ne vengono prescritti 160 mila all'anno, e si osserva un incremento dei disturbi dell'udito negli adulti: per patologie legate al'età, malattie dell orecchio, traumi, eccessiva esposizione a rumori forti (negli ambienti di lavoro, in discoteca o con «walkman» a tutto volume). Per forme di sordità gravissima, oltre gli 85 decibel, purtroppo al momento nessuna protesi può molto. La ricerca tecnologica sta oi a facendo i conti con i telefoni cellulari: la diffusione dei sistemi Gsm richiede sempre maggiori schermature contro le interferenze. Rosalba Giorcelli

Persone citate: Benedetto Camerana, Digital Audio Processor, Rosalba Giorcelli