Webern, i dodici siwmdellafolgore di Sandro Cappelletto
Webern, i dodici siwmdellafolgore A mezzo secolo dalla tragica fine, Palermo lo ricorda con esecuzioni e dibattiti Webern, i dodici siwmdellafolgore Divise il mondo della musica, ora tutti lo celebrano EN errore banale, dovuto a un eccesso di zelo: nessun retroscena, nessuna inchiesta. Un giorno di fine estate del 1945, nelle colline attorno a Salisburgo, nell'Austria ancora occupata dalle truppe alleate, una pattuglia della polizia militare incontra, dopo il coprifuoco, un'ombra: parte un ordine, l'ombra si muove ancora, un soldato americano spara. Muore così, a 62 anni, Anton Webern, il musicista che ha insegnato alla musica a parlare come la folgore di un aforisma di Nietzsche, a esistere astratta e pura come «il punto e la linea nello spazio» di Kandinskij. Mezzo secolo dopo, Palermo è l'unica città italiana a ricordarlo in modo non episodico. Da domani a lunedì al Teatro Golden, per inizia¬ tiva dell'Orchestra sinfonica siciliana, verrà eseguito un ampio spettro delle sue opere. Gabriele Ferro dirigerà i lavori sinfonici, il Quartetto di Torino, Antonio Ballista, Luisa Castellani e l'Ensemble Intercontemporaine di Parigi la sua musica da camera. Mentre lunedì Mario Bortolotto, Paolo Emilio Carapezza, Mario Messinis e Hans Metzger saranno fra i relatori di un convegno internazionale. «Webern applica la tecnica dodecafonica e non compone più: ciò che resta della sua maestria è il silenzio», dice di lui Theodor Adorno nel 1949, quando l'Europa cominciò a riscoprirlo, per non dimenticare più che era quello il silenzio da cui la musica poteva ricominciare a raccontare. Tre anni dopo, Pierre Boulez scrive l'articolo «Schoenberg è morto», rivendicando l'originalità di Webern rispetto al suo maestro. Poi, viene la dichiarazione di Stravinskij, che a lungo non l'aveva compreso: «Giusto della musica e vero eroe (...) condannato a un totale insuccesso in un sordo mondo d'ignoranza e d'indifferenza, continuò inesorabilmente a tagliare i suoi diamanti». Nel 1962, l'università americana di Seattle organizza un festival delle sue musiche, vengono ritrovati inediti lavori giovanili. Con Arnold Schoenberg e Alban Berg, viene ormai riconosciuto come il terzo padre della «scuola di Vienna». Nato a Vienna da una famiglia nobile di Salorno, nel Sud Tirolo, Webern è maestro di coro ai corsi per gli operai organizzati dal partito socialdemocratico, docente di teoria all'Istituto per ciechi della comunità israelitica e direttore in molti teatri della Mitteleuropa. Dopo la Grande guerra, quando l'Austria, come racconterà Musil, comincia a non essere più «felix», rinuncia al predicato nobiliare. Il Terzo Reich vieta la sua musica «degenerata», naturalmente -, lui vive appartato a Vienna, correg- gendo bozze per l'editrice Universal. Perde sul fronte jugoslavo l'unico figlio, si ritira a Salisburgo. «Per arte intendo la capacità di racchiudere wpensiero in una forma la più chiara, la più semplice, cioè la più intelligibile... si va avanti solo procedendo verso {'interiore)), scrive nel 1928. Siamo oltre la rivoluzione dodecafonica di Schoenberg, oltre il grido espressionista del Wozzeck dì Berg (1925). I lavori di Webern durano poche battute, un soffio di tempo: espone i dodici suoni della scala cromatica, il lessico della musica nuova, e lì si ferma, perché in quell'esposizione vive già una platonica legge, un'idea toccata da un'infinità di sensi, in un'eco, in un caleidoscopio di colori, timbri e intensità. Pochi maestri hanno saputo talmente coniu¬ gare concentrazione e senso del tempo musicale. Abbiamo appena iniziato a orientarci dentro i suoi pezzi ed ecco, sono già finiti: non dobbiamo seguirli come un racconto, ma nella loro evidenza fisica, acustica e psicologica: «Voglio raggiungere la più intima natura del suono, che parla con la forza di una legge di natura». «Più va avanti, più Webern concentra il suo pensiero secondo una geometria ristretta. Ha un'ossessione della simmetria, della semplificazione, dell'ascesi», riflette Pierre Boulez. Ma questo assottigliamento, questa riduzione all'essenza, esprime terrore o invoca dolcezza? Webern si ispira alla memoria della madre per i «Sei pezzi», primo capolavoro per orchestra, compone lieder su versi di Nietzsche, di Karl Kraus, del prediletto Georg Trakl: «Ed ecco, in un chiarore purissimo / splendono sulla mensa pane e vino», dice la chiusa di Una sera d'inverno, invito ad una perduta, schubertiana domestica felicità, detto da una voce che ancora anela a cantare: certo non il canto spianata ed eroico, ma racchiuso, riflesso dentro la propria interiorità, tetragono alle scene dell'opera, risolto nell'icasticità di un lied. Oggi, grazie anche alle più recenti, e così più affettuose, esecuzioni di Pierre Boulez, che ne ha meiso l'opera integrale, possiamo dire che lo sguardo del negativo, dello «spavento» - come lo ricordava Adorno - è lente troppo deformante e parziale per comprendere Webern. Già Luigi Rognoni, in un libro del 1966, parlava del suo «umanesimo», ma ora che le ideologie musicali sono in sonno, ora che la differenza è ritornata ad essere quella dei valori, scopriamo che i suoi diamanti sono luminosi come un'alba e che quella «catastrofe» schiude la porta all'abbandono. Sandro Cappelletto Anton Webern, ucciso per sbaglio nel '45
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