HITCHCOCK CACCIA ALL'UOMO Tra delitti e nevrosi di Osvaldo Guerrieri

6.. 6.. Uno studio psicoanalàico, maniacale e divertente, ritrova in lutti i suoi film non solo la ben nota misoginia ma una esplicita chiave omosessuale COPERTINA bellissima: Alfred Hitchcock, con la sua faccia enfiata e malinconica d'inglese non più giovane pesante centosessantacinque chili, nella fotografia manipolata di Maxwell Coplan è travestito da donna, perle, rossetto, colletto di pizzo bianco, parrucchetta assestata, grande effetto. Titolo esplicativo: in Hitchcock e l'omosessualità. Uno sguardo psicoanalitico tra Jack lo Squartatore e la Prostituta Supertroia, l'autore Theodore Price vuol condensare la misoginia del regista, la frequenza nei suoi film degli odiatori e uccisori di donne, quel disprezzo per l'amoralità e facilità sessuale femminile riassunto dalla battuta di Bob Rusk, 0 serial killer di Frenzy: «Le donne sono tutte uguali... tutte, tutte uguali. Tutte troie!». Naturalmente la misoginia di Hitchcock non è estranea alla cultura inglese e può essere una proiezione della sua incapacità di sedurre dovuta al bruttissimo aspetto, oppure una necessità del thriller quotidiano. Naturalmente si conoscevano la nevrosi del regista, la sua sessualità ambigua; son passati quasi quarant'anni da quando Eric Rohmer e Claude Chabrol, nel loro saggio del 1957, parlarono di Omicidio!, Nodo alla gola, Delitto per delitto come di «un trittico omosessuale» ed è da sempre esemplare in Delitto per delitto la scena dell'incontro in treno fra Robert Walker e Farley Granger, dei loro piedi che si toccano con una casualità piena d'intenzioni. Ma Theodore Price sostiene che nei film di Hitchcock «l'elemento omosessuale è di gran lunga più pervasivo», che «lo si rintraccia ovunque», che «molti lettori potrebbero concludere che questa sia la sola componente, o almeno quella principale, dei suoi film», che ir suoi film «trattano tutti e soltanto di omosessualità»: e costruisce un'analisi così fiscale e insieme onirica, così maniacale e ascientifica, da lasciare incerti tra suggestione, incredulità e comicità. Sono bislacchi i «criteri metodologici» dell'indagine. Un criterio è che «autore della storia su cui è basato il film sia un noto omosessuale», a esempio Patricia Highsmith, Noel Coward, Thornton Wilder, Somerset Maugham; oppure che nel film «ricoprano ruoli di rilievo noti omosessuali» quali Montgomery Clift o Charles Laughton. Un altro criterio è l'immagine ricorrente del «matrimonio come inferno», oppure il ripetersi di alcune situazioni: «Il rapimento del protagonista da parte di due sinistri individui che spesso immobilizzano l'eroe stringendolo tra loro sul sedile di un'auto... può essere inteso come l'esaudimento di un incontrollato desiderio di tipo masochistico»; «Ogni volta che nei film di Hitchcock troviamo due uomini che vanno a letto con la stessa donna, 'na sc làico, itrova n solo a una ssuale Spettacolo LA STAMPA Sabato 2S Ottobre 1995 HITCHCOCK CACCIA ALL'OMO Tra delitti e nevrosi dovrebbe immediatamente sorgere il sospetto di un desiderio inconscio che siano i due uomini ad andare a letto tra loro». Anche il fatto che tanti protagonisti hitchcockiani soffrano di vertigini o cadano svenuti sarebbe un segno: «Gli svenimenti maschili si associano all'ansia di dover andare a letto con una donna». Altri segni eloquenti sarebbero il personaggio innocente che si trova accusato di colpe o ricattato (l'omosessuale viene spesso colpevolizzato per la propria sessualità incolpevole e «il ricatto ha tradizionalmente rap- Mau«ricomoseslift o critee del », opuazioonista ividui l'eroe dile di come ollato tico»; di Hini che onna, 'na scena dalfilm «La finestra sul cortili presentato il grande terrore degli omosessuali»); oppure i personaggi sospesi a un cornicione, in bilico a grande altezza, imprigionati ammanettati o legati, condizioni che «rimandano a una perversione di schiavitù sovente associata agli omosessuali». Theodore Price ipotizza che curiosità e indagini di James Stewart immobilizzato dall'ingessatura ne La finestra sul cortile1 (oltre «all'invalidità spesso simbolo di impotenza sessuale»), abbiano lo scopo principale di non fare l'amore con Grace Kelly che s'è presentata in casa di lui con la camicia da notte nella ventiquattrore. Avanza varie ipotesi su Rebecca la prima moglie: Laurence Olivier è un omosessuale nascosto; Rebecca, «nonostante la sua ininterrotta frequentazione dei letti di altri uomini, è probabilmente (come molte prostitute) una lesbica»; oppure Rebecca «non era in realtà una donna, ma un ragazzo attraente»; il secondo matrimonio del protagonista con Joan Fontaine deve far pensare a «un padre che uccide la moglie per poter avere la figlia»; la governante pazza Judith Anderson è un Ersatz della «madre assassinata» e rimanda alla madre di Tony Perkins in Psycho. Quanto a Caccia al ladro: «Il nostro procedimento comparato ci consentirà di scoprire che è imperniato sulla figura dell'omosessuale John Robie detto "il Gatto", un gigolò che va a letto con donne benestanti, pur odiandole, per poi derubai le...». Naturalmente* con un simile metodo ipotetico si può dire di tutto. Hitchcock e l'omosessualità non si priva di digressioni psicoanalitiche elementari sui sogni, sulla vagina dentata, sul «furto come simbolismo sessuale in Marnie», su Gli uccelli («l'uccello è sempre stato un simbolo fallico ricorrente»), ed è molto ripetitivo: ma il suo sforzo di dare sistematicità a indizi opinabili è così strenuo e minuzioso, la sua visione è talmente ossessiva e spesso abusiva da avere qualcosa di grandioso, e di divertente. Lietta Tornabuoni Theodore Price Hitchcock e l'omosessualità Ubu libri pp. 189, L. 35.000 COMICA LINGUAZZA Cecchelin, re del varietà nella Trieste del Ventennio Massacrato dalla censura: 86 diffide, 3 arresti ECCOLO qui, Angelo Cecchelin. Emerge dalla polvere dorata del varietà con la paglietta di traverso, lo sguardo ilare e puntuto, la vocetta stridula con cui elettrizzava le parole più terribili di quella sua satira senza indulgenze, che colpiva in ogni direzione e gli diede fama di «linguazza». L'avevamo un po' perduto, Cecchelin. E dove avremmo potuto ritrovarlo? Di lui non esistono registrazioni televisive; il cinema lo chiamò soltanto per un piccolo ruolo di gondoliere nel film di Mario Soldati La mano dello straniero, la radio del regime lo tenne accuratamente lontano perché Cecchelin aveva sempre rifiutato la tessera fascista, i dischi furono distrutti. Restano i suoi famosi «libroni», i brogliacci che registravano tutti gli eventi significativi dell'attore, del capocomico e dell'uomo, resta la sua produzione (rigorosamente in triestino) di teatrante velenoso e anti-modernista. Roberto Duiz e Renato Sarti hanno perciò compiuto un'opera meritoria pubblicando da Baldini S- Castoldi La vitaxe un bidòn, poiché Cecchelin, pur nel confuso libertarismo e nel qualunquismo della second'ora, è stato un formidabile attor comico e un geniale creatore di macchiette; un personaggio popolare e plebeo che ha spiegato Trieste come nessun altro. Non si può separare Cecchelin da Trieste. E soprattutto non lo si può separare da Cittavecchia. Quel reticolo di viuzze che dal porto si arrampicava sul colle di San Giusto fu la sua università. I personaggi che lo popolavano e che si addensavano nelle bettole gli fornivano macchiette e spunti comici inesauribili. Erano venditori ambulanti, gente di piccola malavita, monelli di strada. Cecchelin si considerava il loro cantore, parlava il loro linguaggio e interpretava i loro umori. Ma in modo diretto, senza abbellimenti poetici. Diceva: «Poeti de ciaparli a son de scapeloti / che co' legò i sui versi, per quando che i xe bei / ve indormenzè sul scagno come purcinei». Cecchelin nacque il 23 ottobre del 1894. Non compì mai studi regolari. Da ragazzo lavorò in una ditta di ferramenta, ma già avvertendo il rimescolio sanguigno del teatro. Erano gli anni dell'irredentismo. Cecchelin diceva orgogliosamente di sé: «Son republican, son socialista. Ma prima son italian», menava fendenti satirici contro gli Asburgo e i loro simpatizzanti. Non riusciva a tenere a freno la «linguazza» e la conseguenza fu inevitabile: carcere. Da quel momento il carcere, le denunce, le ammonizioni, le sospensioni saranno una costante della sua vita e influiranno sulla sua carriera. Cominciò a esibirsi nei cosiddetti Ricreatori, istituti educativi sorti all'inizio del secolo per iniziativa austriaca, però sogna¬ va il grande salto: non i café chantant, non l'avanspettacolo tra un film e l'altro, ma la sala teatrale. Dovette faticare prima di arrivarci. Dovette esibirsi nei circoli, persino nei manicomi. Poi, sull'onda d'un crescente consenso popolare e grazie a una sostituzione, riuscì a metter piede nel Teatro Fenice. Era il 5 maggio 1923, l'inzio d'una folgorante carriera. In breve tempo Cecchelin formò una propria compagnia, che chiamò «Ganga dele macie», sostituita poi con «La Triestinissima», che durò fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nasceva un comico e nasceva un repertorio a base di canzonette, parodie, commedie, barzellette brevi che facevano subito il giro di Trieste. Per esempio questo dialogo tra lei e lui. Lei: «A cosa stai pensando?» - Lui: «A quello che pensi tu» Lei: «Porco!». E nascevano macchiette memorabili. Per esempio Miss Càtiza, «la nuova stellissima del cinema, ex donna del latte di Brestovizza», oppure la celebre maschera del Mulo Carleto, un ragazzino del popolo che Cecchelin rappresentava in calzoni a tre quarti, giacchina, berretto alla marinara e vividi pomelli sulle guance. Carleto si presentava così: «Son Carleto el dispetoso / son el re de furbità /1 me ciama mocoloso / ma nissun no me la fa». La Triestinissima cresceva, si affermava, andava fuori Trieste, ma sempre raccontando Trieste. Fu scritturata Niobe Quaiatti, una ragazzina del Conservatorio che avrebbe dovuto sostituire per pochi giorni un'attrice malata. Niobe rimase in compagnia per tutta la vita, con il nome d'arte di Jole Silvani, divenendo la compagna devota di Cecchelin. Il successo cresceva, fu apoteosi con la commedia Da zita veda a San Giusto, vera via crucis attraverso le osterie. E intanto il fascismo si faceva più pesante e fragoroso. Duiz e Sarti ci ricordano che, durante il regime, Cecchelin collezionò ottantasei diffide, tre arresti, due processi, tre sospensioni e la vigilanza speciale per tre anni. E dopo il '46, quando si respirava un'aria nuova di libertà, subì un altro arresto, un altro processo e due anni di galera pieni. Quando Cecchelin non recitava, entrava e usciva dagli uffici dei prefetti, dei questori e dei federali. Non faceva in tempo ad arrivare in qualche città che già un brigadiere lo at- Atigt'.lo Cecche/in lo raccontano /{dialo Sandrì Roberto Duiz ne ■■La vita xe un bidòn» tendeva sulla soglia del teatro e gli diceva: «Il questore vi desidera, andiamo». Col fascismo, scherzò l'attore, abbiamo «una simpaticissima incompatibilità di carattere». Per forza. Uno degli sketch più blandi era congegnato così: «Signor maestro esordiva un giorno Carletto arrivando a scuola col fiatone - ieri la mia gatta ha fatto quattro gattini, belli come fascisti». «Bravo Carletto - rispondeva il maestro orgoglioso - ti proporrò al direttore per un encomio, vista la bella similitudine che hai fatto». Così qualche giorno dopo, il direttore convocava il bambino: «Allora, dimmi Carletto, come sono i tuoi gattini?» «Bellissimi, signor direttore, belli come quattro socialisti». «Ma come! Al tuo maestro non avevi detto che erano belli come quattro fascisti?» «Oh sì, ma proprio ieri hanno aperto gli occhi». Cecchelin era l'idolo di Trieste, ma la censura gli massacrava i copioni e lo costringeva a ridicoli escamotages. E dopo ogni spettacolo arrivava la solita chiamata in Questura. Cecchelin si era fatto «una specie di segnale orario». Diceva: «Chiamata ore 10 del mattino: paternale da parte del capo gabinetto del Questore. Chiamata ore 17: lavata di capo del Questore. Chiamata immediata: sospensione e arresto». Il fascismo non gli dava tregua; in nome del progresso gli spianava una parte della Cittavecchia e contribuiva ad alimentare il suo «passatismo». Il passatismo si trasformò in qualunquismo alla fine della guerra, quando Trieste diventò crogiuolo di razze e di eserciti e nessuno sapeva chi avrebbe comandato il giorno dopo, se i neozelandesi, gli inglesi o i «titini» jugoslavi. E cominciava la resa dei conti, partivano-le denunce, si meditavano le vendette. Cecchelin pagò carissimo per aver cacciato dalla compagnia, nel '39, un suo attore. Nino D'Artena, un fascista convinto. A guerra finita, D'Artena denunciò l'ex capocomico, che fu processato per tentata estorsione insieme con alcuni squadristi. Il processo si trasformò in uno show, ma l'attore fu condannato a due anni di carcere. Già dal '46 non recitava più a Trieste. Dopo la condanna non ci mise più piede. Andò soltanto in tournée, spingendosi fino al Sud. Poi si trasferì a Torino. La mattina del 18 giugno '64, ancora in pigiama, scese a comprare il giornale, risalì in casa, si sedette in poltrona e morì. Dopo tanto strepito, la sua vita si chiudeva nel silenzio più appartato. Era stata bellissima, combattutissima e infelicissima; ma, per dirla con lui, un bidòn. Osvaldo Guerrieri Roberto Duiz, Renato Sarti La vita xe un bidòn Baldini & Castoldi pp. 202, L. 24.000 Capitolo

Luoghi citati: Torino, Trieste