DONNE BARRICATE NEL VENTRE DI SICILIA Silvana Grasso, «Ninna nanna» di fuori

Lampi con Rai Tire Lampi con Rai Tire EN signore che si chiama Saba e vota per Montale. Una signora che si domanda indignata come Montale abbia potuto scrivere di un'anguilla, abominevole animale. Un'intera famiglia tarantina che mette in campo tutte le sue unità di voto. Sono alcune delle curiosità dello spazio molto seguito di Verso contro verso che con la collaborazione del nostro giornale viene mandato in onda su Radio 3 durante la trasmissione-contenitore Lampi d'inverno curata da Giuseppe Neri e condotta, dopo Giorgio Manacorda, da Marino Sinibaldi. Dalle 14,15 alle 18,45 di ogni giorno, ad esclusione del sabato e della domenica. I poeti che hanno passato il primo turno sono finora Dante, Amelia Rosselli, John Donne, Caproni, Orazio, Cecco Angiolieri. A causa dello sciopero non abbiamo dato gli abbinamenti di questa settimana, che hanno visto contro Petrarca e Alfieri, Palazzeschi e Giudici, Ovidio e Alda Merini, Leopardi e Goethe, Di Giacomo e Ciotti. Per la settimana prossima gli abbinamenti sono i seguenti: I. Saffo, Vorrei veramente essere morta; Emily Dickinson, 0 frenetiche notti! 2. Rainer Maria Rilke, Tu non sei più vicina a Dio; Thomas Stearns Eliot, Aprile è il più crudele dei mesi: genera. 3. Torquato Tasso, Ne gli acerbi anni tuoi purpurea rosa; William Shakespeare, O famelico tempo, la zampa del leone corrodi. 4. Giovanni Pascoli, Dov'era la luna? che il cielo; Gabriele D'Annunzio, Fresche le mie parole ne la sera. 5. Walt Whitman, 0 Capitano! o mio Capitano! il nostro aspro viaggio è terminato; Federico Garda Lorca, Verde que te quiero verde. Ecco ora il nome dei radioascoltatori che hanno partecipato al gioco (il numero è sempre 011 per chi chiama da fuori Torino, 888.881 ) e hanno vinto il ed di poesie dette da Arnoldo Foà e Vittorio Gassman, messo in palio dalla Rai. C'è un po' tutta l'Italia: Giovanna Ferrioli di Casalecchio di Reno (Bologna), Roberto Madaro di Napoli, Elena Lozano di Belluno, Eligia Camera di Savona, Erminia Gallo di Noto (Siracusa), Elisabetta Sartori di Bergamo, Lidia Sarni di Genova, Massimo Piludu di Cagliari, Giorgio Licci di Torino, Augusto Pinna ancora di Cagliari. Continuano anche ad avvicendarsi in due altri spazi del programma curati da Tuttolibri le classifiche preparate dalla Adhoc per il nostro giornale e i critici che parlano di alcuni dei libri più letti. Gli aggiornamenti sul prossimo numero di Tuttolibri. DONNE BARRICATE NEL VENTRE DI SICILIA Silvana Grasso, «Ninna nanna» di furori UESTO terzo libro M \ di Silvana Grasso, JB B Ninna nanna del H H lupo, si prova qual- H che difficoltà a maH neggiarlo, a entrare B nella sua strategia ■j Wj narrativa, a pene- V W trarne le ragioni. A famigliarizzarsi con Il i pensieri e le rimembranze di Mosca Centonze, che sorprendiamo nella sua lunga giornata di nonagenaria in un paese della Sicilia interna. Mentre la serva Clementina accudisce alle sue mani deformate dall'artrite con bagni, massaggi e empiastri, mentre la padrona ascolta, immobile nel letto, il colare delle ore. Mosca ragazzina è emigrata in America, portandosi dietro tutti i tabù e le sopraffazioni di un costume arcaico. Per estremo, crudele paradosso è riuscita a liberarsene simbolicamente con il ricovero in sanatorio. I medici guariranno i suoi polmoni corrosi ma, con una operazione radicale al ventre, la priveranno di quello che, al paese, è il solo onore riservato alla donna: la capacità di generare figli. Quasi che, attraverso utero e ovaie, la sradicassero dalla Sicilia e dalle sue ossessioni. Ma al sanatorio Mosca conosce anche Rascia che, prima di morire, le racconta delle violenze atroci subite da lei e dalla sua famiglia in Armenia per mano dei Turchi. E le lascia una specie di testamento, di cui Mosca si ricorderà al rientro in Sicilia. Prima però si mette con un killer mafioso destinato a mala morte, e raccoglie con sé Clementina, da allora indivisibile compagna. Il romanzo, attraverso i silenzi e le elementarità espressive della protagonista, finisce per raccontare la storia di una solidarietà femminile barricata, per destino e per scelta, nella sterilità (la stessa Clementina, dopo avere tentato il suicidio per l'abbandono di un fidanzato, resterà vergine, non avrà figli). Ce lo conferma il solo vero spunto narrativo, rappresentato dai casi del podestà Zafarana: che, sadico torturatore di vecchiette e di gatti, campione di machismo verbale, un giorno viene trovato ucciso e sconciato. La ritorsione beffarda ubbidisce a motivazioni locali, ma assume su di sé una specie di contrappasso, di vendetta trasversale, suggerita dalla dolorosa ombra di Ra¬ scia. Con ogni evidenza, anche questa resa di conti doveva svolgersi nella Sicilia delle prime, germinali ferite. L'asciutto resoconto che ne ho dato non rende giustizia al romanzo della Grasso, serve appena ad appendervi qualche onesta chiosa. In una recensione al suo precedente libro mi chiedevo, al di là dell'apprezzamento, dove sarebbe potuta arrivare con quell'humus ambientale, così estuoso e terragno, con quel linguaggio scolpito, a violente Silvana Crasso pennellate dialettali. Come sarebbe potuta uscire dal suo mondo di cupe, sanguigne pulsioni. L'interrogativo resta, perché il viaggio oltreoceano appare qui poco più che un diversivo, l'America non ha sfondo e lo stesso legame con il piccolo boss, che pure è durato vent'anni, viene appena accennato, strozzato sul nascere come si trattasse di una molesta incombenza. Tutto il resto è Sicilia, superba e vivida nella perennità di cieli e paesaggi, lutulenta e suppurante nel fisico e nel morale delle persone, protagonisti e comparse. Manca, più generalmente, dentro una cornice pure così compatta e sapiente, un vero sviluppo narrativo, un coerente percorso psicologico. Mosca, catafratta nelle sue reticenze e silenzi, è figura con cui si stenta a fare amicizia; anche se nelle ultime pagine, sul finire della vita, sembrano stemperarsi e intiepidirsi i suoi accumulati rancori: aprirsi, da un inferno di sangue, malattia, disfacimento (sul quale la Grasso indugia in modo spavaldamente scostante) a una debole illuminazione sulla carità del vivere. Quella che, in modo irriflesso, anima da sempre i comportamenti di Clementina, fa pulsare il suo cuore semplice. Resta la seduzione di una lingua che aderisce, con imprestiti popolari e colti, ai richiami della realtà minerale, vegetale e atmosferica. Senza sforzo apparente, se la stessa iterazione della sostanza verbale, anziché manifestare una lenta approssimazione alla parola giusta, rivela piuttosto il traboccare di una ricchezza esuberante («quel rantolio rauco ringhioso mastino», «incantesimava stordiva», «più l'inaspra, più la rianima e l'attizza», «la fodera si logora alleggia annera sfricoliando»...). Si direbbe che la Grasso si impegni a ribaltare la condizione corrente di una lingua che non ha più rapporto con la sostanza delle cose: «Non si vedono le parole, non si vedono mai. Le parole non hanno colore, non profumano, non hanno corpo. Non hanno spigoli né trasparenze». Farle vedere e sentire, quelle parole, % .la ...sua gpreocqupaziqne più viva, da incantarsene, anche quando si depositano o si sprigionano dalla materia più greve e insana. Sicché alla fine la storia più vera che riteniamo dal suo romanzo smarrito e convulso sembra proprio essere quella di una lingua che si fa, che riscopre se stessa, al di là di ogni altro avventuroso accidente. Ma che rischia di arenarsi nei lacerti e nelle illuminazioni della pagina bella. Lorenzo Mondo Silvana Grasso La ninna nanna del lupo Einaudi pp. 189, L. 26.000 POTEVA ESSER BELLA LA MADRE DI BEVILACQUA // commento soffoca il racconto NEI tempi più recenti Alberto Bevilacqua sembra aver rinunciato alla vocazione del narrare per scegliere altre parti entro il gran territorio della letteratura: il moralista, il «sensitivo», il confidente, soprattutto il cultore dell'autobiografia. Devo dire che un poco la cosa mi dispiace, se penso alla capacità di Bevilacqua di raccontare con pochi tocchi essenziali scorci di vicende di personaggi sempre un poco segnati di bizzarria, di mistero, di pazzie, insieme evocando con incisività gli ambienti umani e naturali in cui vivono e agiscono e muoiono. La Lettera alla madre sulla felicità accresce decisamente lo spazio dell'autobiografia: anzi, avendo come interlocutrice la madre, via via chiamata in causa come depositaria di confidenze, di pensieri, di sentimenti, di ricordi, di esempi di vita, di ammaestramenti, è un lungo sfogo che nasce dall'esperienza che lo scrittore ha attraversato di persecuzioni, calunnie, denunce, rivelazioni scandalistiche di giornali succubi del mito dello scandalo da creare e sfruttare a ogni costo. In questa prospettiva, il libro ha ampie parti di polemica morale e civile, ma i momenti più originali e significativi sono nei dialoghi telefonici con giornalisti (americani e italiani) che vogliono intervistare lo scrittore in quanto «mostro» (naturalmente, per i giornalisti, di Firenze), averne opinioni, giudizi, battute, al fine di offrire in pasto ai lettori le emozionanti confidenze, fra pruriginosità e brivido di finto terrore, di chi potrebbe aver commesso tanti e così efferati crimini, anche se, naturalmente, gli intervistatori dichiarano di non crederci affatto; e lo Scrittore sta al gioco, usa l'ironia, ovviamente non capita con effetti esilaranti, esagera, calca le tinte, in un divertimento che è a metà ferocemente allegro e per metà doloroso. Poi, c'è il diario dei giorni di angoscia per le minacce di morte, gli agguati veri o immaginari (e qui il carattere visionario della scrittura di Bevilacqua acquisisce qualche altro trofeo), di conversazioni con amici, magistrati, avvocati, funzionari, di considerazioni sullo stato dell'Italia vittima di complotti, di trame oscure di associazioni mafiose, di servizi segreti, di ricattatori più o meno importanti. E qui c'è il continuo rischio di cadere nel già saputo, perfino nell'ovvio, anche se le situazioni sono viste, con una risentita asprezza, dal punto di vista di chi si è inopinatamente trovato a fare le spese di un banale intrigo di donne, trasformatosi in una sequenza di false notizie o ipotesi di notizie, di voci più o meno camuffate, di illazioni offensive presentate con ipocrisia. Ma le pagine migliori del libro sono altrove: anzitutto, nel carattere dolcemente confidenziale del colloquio con la madre attraverso il tempo, con l'evocazione dell'infanzia e della giovinezza, soprattutto con la delineazione ■ 4 Il ■ 4 .Alberto Bevilacqua alacre e gentile di una figura di donna saggia e allegra, che celebra la strana eppure esistente felicità della vita, da perseguire a malgrado di tutto, e soprattutto contro le anime buie, invidiose, maligne, tristi della tristizia-accidiosa di chi non vuole il sorriso, la letizia, il piacere del gioco. Proprio per questa dote meravigliosa la madre finisce ad apparire come colei che risplende nell'oscurità del mondo e delle situazioni in cui il figlio è rimasto invischiato a opera proprio di quegli esseri dell'ombra e della persecuzione. C'è un episodio che meglio di ogni parola descrive la funzione salvifica della madre: quello in cui, l'indomani della Liberazione, mentre l'onesto ufficiale fascista di fronte alla folla, arrivato a cavallo in alta uniforme, si mette in bocca la canna del fucile dopo avere chiesto ai vincitori di lasciarlo morire a suo modo, gli si avvicina e incomincia ad accarezzargli la mano che sta per chiudersi sul grilletto, finché l'uomo arresta il movimento, ormai vinto, come vinti sono la folla e i partigiani. Poi ancora c'è il Bevilacqua visionario e ossessivo, quello delle apparizioni misteriose e inquietanti, come il padre e il figlio deforme, ma col volto bellissimo, in una notte romana, e l'abbraccio disperato e dolcissimo dell'uomo al bambino; o come i tagli efficacissimi e allucinanti di sequenze filmiche; o ancora come certe figure di uomini appesi a una contemplativa follia, conosciuti nell'infanzia padana, che ritornano vivi nel colloquio con la madre, come rivisti attraverso lo sguardo di lei, colmo di comprensione, di riso, di sottile solidarietà. Sono i momenti migliori del libro, tuttavia discontinuo, un poco scomposto, troppo condizionato dal caso personale per liberare la scrittura nell'invenzione. L'epilogo, con l'operazione e le immagini che si accavallano, incubi, consolazioni di parole e di gesti di una ragazza anch'essa ricoverata, sarebbe potuto essere una sorta di «notturno» degno del Bevilacqua fantastico e visionario. Ma sono soltanto appunti, e anche qui si avverte la dispersività del discorso, che riconduce ogni particolare alla vicenda della calunnia e della^ persecuzione, senza riuscire, a sollevarla al di là del «caso» e à farne oggetto della narrazione di un'ossessione, esteriore e interiore al tempo stesso. E' il limite dell'opera e, più generalmente, degli ultimi libri di Bevilacqua, che dovrebbe ritornare alla sua autentica vocazione: quella di raccontare storie, non tanto quella del commentatore di fatti di cronaca, di espositore di idee, di portavoce di opinioni. Giorgio Bàrberi Squarotti Alberto Bevilacqua Lettera alla madrMondadori pp. 299. L. 26.000 Lettera alla madre sulla felicità SI è affermato da un po' l'italiano unitario, i dialetti ora stanno decadendo, o comunque finendo nelle forme in cui si sono espressi in passato, perché è finito quel mondo che li sosteneva, la cultura che li intrideva. Una perdita secca. Eppure la poesia in dialetto mai è stata cosi vigorosa come oggi, e i poeti di prima grandezza. Un felice paradosso. Nel momento in cui i dati sociolinguistici sembrano essergli sfavorevoli, il dialetto si afferma prepotentemente in letteratura. Il fatto è che in un mondo popolato dagli esperanti delle lingue ufficiali e degli apparati il microcosmo del dialetto è sentito come una forma di resistenza all'omologazione di un montante bla-bla: il poeta prova disagio di fronte all'italiano di massa, e converge verso una lingua privata (e periferica. Anche in Piemonte i più interessanti mi sembrano ora non quelli che si esprimono in una koiné piemontese, ma poeti appartati di aree laterali, per esempio monregalesi come Bertolino o Regis). Di fronte al processo di accentramento livellatore che distrugge differenze e peculiarità il dialetto è scelto come espressione di una umanità non livellata, come lingua ROMAGNA DI NOTTE : BALDINI SOTTOVOCE più vivace e inventiva, dove anche vi pesano di meno le convenzioni socio-culturali della poesia italiana del secondo Novecento, stretta tra ermetismi vari e avanguardie, e comunque giocata molto sull'aggrovigliamento della citazione e degli echi intertestuali. Si direbbe che ci si sta concentrando attorno a due poli, il polo della grande comunicazione, della immediata traducibilità di quel che si dice e si scrive, l'interlingua mondiale ad alto livello, e un inverso rasoterra, il polo della non traducibilità, della latèràlità, del rifugio in cui si può distillare l'essenza più peculiare, segreta, inventiva, individuatissima, irripetibile delle «storie» e della lingua che le esprime. Queste osservazioni me le suggerisce la nuova bellissima raccolta [Ad nòta, «di notte») di uno dei maggiori poeti contemporanei, Raffaello Baldini, l'autore di E' soliteli. ( 1976), La nàiva ( 1982), Furistir (1988). Nel dialetto di Sant'Arcangelo di Romagna Baldini si è creato la sua lingua per la poesia, una domestica oralità dialettale, ma anche mitica e fantastica. Peculiarità saliente della poesia di Baldini: il vivere nelì'«esecuzione», nella dimensione dell'oralità. I suoi versi vanno recitati (sottovoce), e vi ri¬ trovi la grana e il ritmo del parlato: pause, esitazioni, incertezze, riprese, frasi sospese, monosillabi, incisi. Altra, non secondaria, peculiarità: la frantumazione, la contorta segmentazione breve dei versi, che si dispiegano in lunghi, teatrali monologhi drammatici tenuti su da una voce recitante che riproduce le cadenze del parlato con un puntiglio mimetico eccezionale ma che insieme è una stralunata tirata, una surreale invenzione, mirabile virtuosismo. «L'inceppamento linguistico - scrive Mengaldo nella Presentazione della raccolta - diviene fuoco d'artificio»; in queste tirate senza respiro il tutto sembra ingorgato, in realtà è «filato, detto con una sola presa di respiro». Baldini è davvero maestro nel comporre queste lunghe forme aperte, nello snocciolare versi concatenati che si riproducono uno sull'altro in una struttura sintattica non «scritta» ma aggrovigliata in un'ossessione di oralità. I componimenti non hanno pause interne, se non quelle minime. Il risultato non è però l'informe del magmatico, ma una sorta di lucida, immediata introiezione della realtà parlata. Paradossalmente, dominano nella raccolta endecasillabi e settenari, i versi canonici, isti¬ tuzionali della tradizione nostrana, ma (ce lo fa notare ancora Mengaldo) stanno lì ad arginare la dispersione di monologhi a perdita di fiato, che sembrano scorrere a ruota libera. Talvolta, quando il componimento si condensa e le situazioni e le storie restituiscono il bagliore di un ricordo (per esempio L'éultum sedéili «l'ultima panchina», Al fai «le foglie» o nelle rivelazioni finali che chiudono fulminee i componimenti lunghi) Baldini fissa momenti lirici mirabili. Ma l'amaro comunque e il cupo sono i toni dominanti. Il «paese» di Baldini è il luogo dove non si è «forestieri», ma non è più il rifugio consolante, il luogo della nostalgia, dell'arcadia serena: le malattie urbane si sono depositate appieno, e il paese sta diventando il luogo dove male o follia o nevrosi dilagano: quel «parlato», messo in bocca a personaggi maniacali, stralunati, che talvolta sfiorano il comico, restituisce il quotidiano e i suoi precisi dettagli, con contorni deformati e frantumati. Gian Luigi Beccaria Raffaello Baldini Ad Nòta. Versi in dialetto romagnolo Mondadori, pp. XX-126. L. 25.000 Scataglini: com'è impossibile la vita