GIDE INGANNO' LA CAPRIA

GIDE INGANNO' LA CAPRI V GIDE INGANNO' LA CAPRI V INTERVISTE noliiV éto^nj TRE SET PER CLERICI ✓\ NAPOLI M flk UANDO Gide venne per U A la prima volta in Italia, fl H incontrò un giorno, in BJ trattoria, un signore H con una bella testa cir■J H condata da una nuvola V V di capelli e con una W| W morbida barba bianca. «Chi è quello?», chiese Il al cameriere. «Il nostro grande poeta Giosuè Carducci», gli fu risposto con orgoglio. Di fronte alla sostanziosa porzione di fettuccine alla bolognese che gli fu servita, il vate de «Il bove» perse però tutta la sua regalità buttandovisi sopra con animalesca ingordigia. Gide pensò che, forse, non era quel poeta sublime che la sua faccia faceva supporre. In un pomeriggio ventoso del '44 fu Gide in persona, passeggiando per via Caracciolo, avvolto in un gran mantello scuro, che raccontò al giovane e reverente Raffaele La Capria l'episodio del suo incontro con Carducci. E La Capria, intellettuale alle prime armi, si sentì come investito da uno speciale privilegio nel ricevere questa confidenza. Ma tutto il suo entusiasmo per l'osannato Gide si sciolse come neve al sole quando si accorse che l'augusto scrittore francese non gli aveva confidato niente di inedito. L'episodio del poeta e della pastasciutta lo aveva già dato alle stampe e registrato nel «Journal». «Per due giorni mi era parso che quel racconto fosse mio - scrive La Capria in False partenze (pp. 210, L. 28.000, Mondadori) -, che Gide lo avesse raccontato proprio a me, in esclusiva. Adesso scoprivo che lo aveva adclirittura scritto in un libro... Be', mi parve una specie di tradimento, e Gide ne uscì un po' diminuito ai miei occhi. Quando si è ragazzi...». Benedetta gioventù, quella di La Capria, tenera e vulnerabile nella sua passione letteraria, innocente e consapevole, orfana, soprattutto, di buoni maestri. I maestri - per la generazione dello scrittore nato nel 1922, formatasi durante il fascismo, ma pronta a consumare la propria giovinezza e maturità nel dopoguerra - bisognava andarseli a cercare con il lumicino. Questo purtroppo accadde non solo durante il fascismo, quando nessun professore spiegava a La Capria - che aveva sedici anni nell'anno sedicesimo del regime - chi erano Croce o Labriola. Ma anche alla fine della guerra, proprio nel momento in cui sembravano spalancarsi le porte e invece arrivavano i dogmi, i condizionamenti ideologici (marxismo, comunismo, anticomunismo, antifascismo) a opprimere chi cercava di ragionare con la propria testa. Confuso, costretto ad imboccare strade che lo convincono poco, il protagonista di questo autoritratto dello scrittore da cucciolo nella prima parte del volume si chiama Candido e fa passi falsi, giri tortuosi, per approdare alla sua personale verità (al nucleo originario del libro, già edito nel '74, lo scrittore ha aggiunto nuovi capitoli per raccontare la sua esperienza culturale fino al 1952, anno in cui pubblica Raffaele La Capria «Un giorno d'impazienza», e anche di anni successivi). «Candido - spiega La Capria rappresenta, con ironia e con una certa indulgenza, lo stesso candore che si ritrovava nella maggior parte dei suoi coetanei, e sarebbe facile, col senno di poi, giudicarlo con sufficienza o condannarlo». Candido, o della perplessità, perché non riesce mai a prendere una decisione sulla via da imboccare: «Per mantenersi libero non percorre nessuna strada sentendo che la cosa più importante è conservare la propria umanità e un rapporto con il mondo al di fuori di ogni deformazione ideologica. Così la Resistenza non cambiò del tutto la natura di Candido, ma lasciò un segno, gli fece capire chi era. E non perché lui vi avesse partecipato direttamente. Le circo¬ stanze lo vollero confinato nelle retrovie, inquadrato nei ranghi di un battaglione universitario. E sempre con l'idea fissa di passare le linee per andare al Nord a combattere. Ma di passare le linee non fu capace. Forse perché c'era una linea interna che non sarebbe mai riuscito a passare». Mentre nella città partenopea si ballava il boogie-woogie e nel '4445 si viveva con un ritmo febbrile, i più giovani e colti napoletani fecero di tutto per uscire dalle macerie intellettuali della guerra. Recuperati Pavese e Vittorini, Isherwood e Cechov, ripescavano di tutto dagli scaffali ammuffiti, da «Mobbidikk» (pronuncia locale) a «Mollflander», e poi Auden, Spender, Montale... Molte traduzioni di libri proibiti durante il fascismo cominceranno ad apparire sulla rivista «Sud» di cui saranno animatori, oltre a Pasquale Prunas e a La Capria, Barendson, Ghirelli, Patroni Griffi, Compagnone, la Ortese e tanti altri. Negli anni successivi un punto di riferimento per La Capria sarà Moravia: «Quando ripenso a Moravia, alle nostre conversazioni e ai continui qui prò quo provocati un po' dalla sua sordità un po' dal fatto che anche quando dicevamo la stessa cosa continuavamo a litigare come fossimo in disaccordo, mi sorprendo a fissarlo con una specie di broncio da ragazzino ingiustamente punito. O con il suo sorriso eternamente disarmato». La Morante è ritratta da La Capria con la sua faccia da gatta mentre sfugge alle manone di Norman Douglas che la inseguiva in una pineta di Capri. Dacia Marami La Capria la rivede sott'acqua mentre pesca i ricci durante un'estate ad Amalfi. E Carmen Llera è raffigurata mentre lo scrittore le chiede «vuoi sposarmi?» in puro stile mora viano, in un momento di imbarazzo per superare un silenzio improvviso. Per arrivare ai nostri giorni, quali i libri più interessanti della stagione? «Ci sono molti libri di valore, non solo narrativo ma anche saggistico, come "D bottone di Puslrin" di Serena Vitale, "Passaggio in ombra" di Maria Teresa Di Lascia, e "Mistero napoletano" di Ermanno Rea». Mirella Serri BCOMO ORIS Vian indicò nel be-bop un antidoto contro il nazismo. Gianni Clerici aggirò il sabato fascista e la scuola di regime alla Mùnchhausen, volando su una candida pallina Pirelli. Fra l'orbace che gli imponeva il signor maestro, pena l'addio ai banchi, e la divisa tennistica, come esitare? Un'opposizione estetica, di stoffa borghese, restia a ogni richiamo che non fosse la Rolls-Royce color latte di queir«Alassio 1939», il terzo capitolo romanzesco di I gesti bianchi (Baldini & Castoldi, pp. 399, L. 30.000), dopo «Londra 1960» e «Costa Azzurra 1950». Un «set» letterario per la firma di «Repubblica» (che partecipò allo Strega nel '66 con Fuori Rosa), albero genealogico assolutamente comacino, passato sportivo non avaro di carati: per due volte fu ammesso a Wimbledon - ed era Wimbledon. «Comacino, sì, non comasco, comasco suona male. E' una felice correzione che debbo a Brera: volle così fissare il torso, secondo lui, del mio carattere: diverrei pittoresco quando mi altero. L'arcimatto è fra i miei maestri, con Soldati, Bassani, Sergio Ferrerò. Loro mi hanno insegnato a scrivere, muove da loro il poco o il tanto che valgo sulla pagina». Di articolesse, per dirla con il «principe della zolla», Gianni Clerici ne ha sfornate a iosa: «Giovanissimo, Brera mi portò alla Gazzetta dello Sport, terza pagina, raccontavo di vecchi campioni della racchetta che svernavano a Montecarlo o di cacce in Libano, con la fionda, ai piccioni selvatici». Il piacere di divagare, aspettando altre palestre: «Sempre al seguito di Brera. Prima a Sport giallo, un settimanale simil Guerin Sportivo (iì Guerin che fu), poi l'avventura del Giorno, infine il quotidiano di Scalfari». Giornalista e narratore d'inchiostri sensibili Gianni Clerici, sessantacinquenne lord di lago, dove il tempo è uno slow. Avanti di metterli nero su bianco, i «gesti bianchi» li ha provati e riprovati nei rettangoli con la rete: «Wimbledon, certo, un momento indelebile. No, in Davis non ci arrivai: mi furono d'ostacolo i "pezzi" ribelli che via via firmavo. Comunque, l'agoni¬ smo lo lasciai per motivi di salute. E mi laureai in Legge. Iniziati a Milano - tra i compagni di corso Arbasino -, terminai gli studi a Urbino. Vi giunsi sulla scia di un professore "malato", guarda caso, di tennis». I gesti bianchi: un titolo d'indole arbasiniana. «Me lo ha invece suggerito Sergio Ferrerò, è il frammento di una poesia di Roger Allard: "Adieu, la raquette sonore / Les cris anglais, les gestes blancs! / Le seul jeu de ce jaune octobre / Est de s'embresser sur les bancs». In copertina, una donna Anni Trenta, cappello tipo cloche (e racchetta nella mano inguantata): dal Saturday Fvening Post. Gianni Clerici è un collezionista di opere «a soggetto». Ha appena scovato un quadro attribuito (attende conferma) a Spadini: un ottocentesco tennis Cicmni Clerici (foto Giovannetti) club. Ed è orgoglioso di un olio del postmacchiaiolo Gioii: «E' il cruccio di Bassani. Non lo conosceva allorché uscì II giardino dei FinziContini. Viceversa lo avrebbe scelto per raffigurarne l'aura». «Londra 1960», «Costa Azzurra 1950», «Alassio 1939»: sono disposte à rebours le storie. «Perché? "Alassio" è lunga assai. Temevo che, rispettando l'ordine cronologico, il lettore si "stufisse", si stancasse, come ammonisce il dialetto di qui». Timore infondato, che «Alassio» è un «lob» quasi impeccabile: «Discende da un diario composto intorno ai vent'anni. Ritrovatolo, l'ho messo a punto». Involontaria, forse, però una logica sorregge I gesti bianchi: capitoli di una ricerca del mondo di ieri, fino alla meravigliosa infanzia. Alassio, l'estrema belle epoque che sarà divelta dalla guerra, la casa avita, Casa Geranio, la Gallinara trasformata dalla fantasia nella Tortue salgariana, le palle accolte e offerte «come bouquet», la precettrice, una baronessa russa, la giacca dai risvolti viola e verde, i colori di Wimbledon, di Lord Hanbury: «Il re del luogo. In dote portò l'elettricità, l'ospedale, l'architettura». Fogli autobiografici tout court o modulati su scintille di vero. «Vero è il maestro Sweet, un coreografo mancato: esigeva la musica in campo, intendeva il tennis alla stregua di un balletto. Ispirato solo in parte a un campione realmente esistito è il Siegfried di "Costa Azzurra", che affrontai nel '51. Tedesco, all'anagrafe Gottfried von Cramm, antinazista, imprigionato perché omosessuale, quindi liberato a furor di grandi nomi del tennis mondiale. L'onta suprema la subì oltremanica: venne escluso dal torneo di Wimbledon che di sicuro si sarebbe aggiudicato perché - riecco, implacabile, il pregiudizio, e nella civile Inghilterra - omosessuale». Tre storie, tre match. «Alassio»: gli anni di prova, in cui il «piccolo baby» capì che «il gioco era una bella cosa se andava oltre l'ira degli uomini». «Costa Azzurra»: la difficile pratica dell'amicizia, il rapporto (tra devozione e sfida) allievomaestro. «Londra 1960» (c'è il pigro Pietrangeli che sfiora il trofeo di Wimbledon): l'ostico cammino verso la maturità, il palleggio defatigante con la linea d'ombra. E in «Costa Azzurra» e in «Londra» gli amori, lievi, senza confini. Casa Clerici (con fantasma: «un garibaldino, talvolta la macchina per scrivere ticchetta da sé») svetta sul Lario. Impalpabili, come la fragile foschia, salgono i ricordi: «Là è il Crotto del Misto, si andava a pranzo con Brera e Alpino. E su quel pontile Soldati diede una dimostrazione sublime dell'attore che è: mimò, impeccabile, i gesti del pescatore, ingannando i passanti». Da Soldati, magnifico imbonitore, a Wimbledon, alla massima di Kipling in lettere dorate sopra la porta d'ingresso, il passo è breve: «Che tu possa incontrare la vittoria e la sconfìtta, e trattare queste due bugiarde con lo stesso viso». Bruno Quaranta ti