CULTURA NON EXPORT Produciamo molto di più di quanto sappiamo diffondere: gli istituti all'estero sono abbandonati alla «buona volontà» di Ferdinando Camon

CULTURA NON EXPORT CULTURA NON EXPORT Produciamo molto più di quanto sappiamo diffondere: gli Istituti all'estero sono abbandonati alla «buona volontà» Prossimamente FELTRINELLI PER IL '96 SCOMMETTE SU FOUCAULT •mjì EL '96 speriamo dì dare alla \\ nostra saggistica tanta visi\\ bilità quanta nel '95ha avu1 to la narrativa»: per Carlo ±_U Feltrinelli l'operazione ha soprattutto un nome: Michel Foucault. Attorno ai tre volumi nei quali confluirà la gran parte dei Dits et écrits appena usciti da Gallimard, stanno lavorando tre specialisti, Judith Revel, Alessadro Dal Lago e Alessandro Pandolfì che lunedi alla Statale di Milano e mercoledì all'università di Bologna parteciperanno con Sini, Castel, Ewald e Marchetti alle due «giornate Foucault» organizzate dalla stessa Revel (a gennaio le edizioni del manifesto presenteranno il suo saggio foucaultiano Le parole e i poteri) con gli atenei, l'ambasciata di Francia e il Centro Foucault di Parigi su alcuni dei molti temi che il pensiero del filosofo francese oggi più che mai sollecita: Foucault e la storia, Foucault tra la teoria del potere e la pratica dalla resistenza, Foucault e la comunicazione, per chiudere con la domanda più difficile e forse ancora bruciante: Foucault italiano? Un forte viatico per l'iniziativa della Feltrinelli che seguendo una scansione tematico-cronologica apre in primavera con il capitolo filosofico-letterario (Revel), i testi dell'autore di Le parole e le cose degli Anni 50-60, per proseguire con quelli storico-politici dal '60 al '78 (Dal Lago) e chiudere sull'etica (Pandolfì), una sorta di summa, tra il,'78,e l'85, unannp post moijerq, del percorse^ intellettuale di un uomo orinai giudicato (vedi Deleuze) uno dei nodi fondamentali nel pensiero del '900. Ma la strada con Foucault, del quale anche Einaudi sta riproponendo le opere, è appena all'inizio: la Francia è mobilitata per dar luce a quella parte di inediti (un materiale enorme custodito alla Saulchoir), corsi universitari ecc. che possono essere pubblicati senza contraddire alle volontà del filosofo mentre nel cassetto esiste, completo, Le confessione della carne, ipotetico 4° volume della «Storia della sessualità». C'è poi sempre il giallo attorno a Manet, un'opera che pare di enorme portata, ma che Daniel Defert, il compagno e esecutore testamentario di Foucault, continua a tenere segreta: non per un qualsivoglia interesse esterno, si assicura, ma per un lacerante amoroso egoismo. Woolf: lettere all'amante Virginia Woolf che fa l'oca per non far sfigurare il marito? E lascia «che la gente mi creda smancerosa al fine di smussare le pedanterie zitellesene di Léonard»? Possibile? D mito di un matrimonio tanto singolare quanto perfetto che all'improvviso s'incrina. Lo dicono le quattro lettere inedite scovate a Sissinghurst nella torre elisabettiana dove Vita Sackville West aveva il suo studio, da una giovane studiosa olandese: pagine di passione ma anche di quotidianità di Virginia all'amicaamante tra il '32 e il '39 e che Rosellina Archinto pubblicherà all'inizio del '96 nella traduzione di Francesco Bruno. Qualcosa di raro, nell'epistolario enorme e notissimo anche in Italia dell'autrice di Gita al faro (4 volumi einaudiani più il carteggio Vita-Virginia raccolto l'anno scorso da La Tartaruga), lettere che Vita aveva deciso di tener nascoste. Non solo per sottrarle allo sguardo geloso della segretaria innamorata, la celebre Miss Macmillan (come recita l'appunto sul vecchio pacchetto: «Non per M»), ma per lo squarcio che, in poche righe, esse avrebbero provocato sul ménage woolfiano. E non si tratta solo di Léonard forse per la prima volta, come sottolinea il traduttore, «messo in crisi» dalla geniale e nevrotica moglie. Altrettanto inusitata l'insofferenza di Virginia verso la suocera, noiosa e «interessata soltanto ai pettegolezzi della famiglia reale...» che bisognava periodicamente visitare. Insomma la regina di Bloomsbury come una nuora qualunque. Se questo è davvero il filo conduttore delle 4 lettere, risulterà molto più divertente di qualsiasi trita e ritrita trasgressione. Mirella Appkrtti CA E' un ufficio, agli V Esteri, che stampa ✓ al computer un prezioso elenco degli Istituti Italiani di Cultura nel mondo. Sono tanti. Siamo forti. Ogni sede è riportata con l'indirizzo, il nome del direttore, il telefono, il fax, l'orario. Con l'indicazione della sfasatura tra ora locale e ora italiana, affinché tu non chiami fuori tempo, quando là è notte o stanno mangiando. E' uno strumento di lavoro. Provi a lavorarci, dunque. Chiami per esempio Zagabria, 003841424716: non risponde, il numero è sbagliato. E' nata la Croazia, forse chi ha stampato l'elenco non lo sa. Son sei mesi che la Croazia ha un prefisso diverso. Vorresti mandare un fax, ma sull'elenco non c'è fax. Quando però, per altre vie, scoprirai i numeri dell'istituto di Zagabria, vedrai che il fax c'è: 431602. Solo che la direzione culturale di Roma non lo sa. Chiami Tokyo, 0081-3-2646011. Ti rispondono in inglese, seccati, è una fabbrica, gli fai perdere tempo. Il numero giusto comincia per 3, non per 2. Chiami Beirut, 00961-1-862395. Ti rispondono in francese. Domandi se c è il direttore. De quoi? Dell'Istituto Italiano di Cultura. Ma quello non è l'Istituto Italiano, il numero è cambiato da tanto tempo. Gli domandi se hanno il numero esatto. No, e ti pregano di non disturbare più. Chiami la Norvegia: 0047558189. Ti rispondono da Roma: «Telecom Italia, avviso gratuito: il numero selezionato è inesistente», che è una bella espressione filosofica, il numero è ma non esiste. Chiami Varsavia, 0048-22-266289: la linea parte ma non arriva, precipita nel vuoto. Varsavia ha anche un fax, 269068. Provi. Miracolo, è un telefono. Ma rispondono in polacco, sanno così poco l'italiano che non capiscono nemmeno che parli in italiano. Non può essere un nostro ufficio. Chiami Praga. Praga ha tre telefoni e un fax, tutti sbagliati. A questo punto rinunci, e chiudi l'elenco degli istituti culturali italiani: ti sembrava di avere il mondo in mano, il mondo è svanito. Mandi un fax a Roma, a quella direzione culturale degli Esteri, perché ti dia un elenco con i telefoni aggiornati. La risposta non ti arriverà mai. Sulla diffusione della cultura italiana nel mondo si son lamentati, quest'anno, Giorgio Strehler (prima dell'estate era a New York per I giganti della montagna, e si accorgeva che per il nostro teatro nel mondo si fa ben poco, chi va all'estero deve arrangiarsi); Riccardo Muti (qui, su La Stampa, il 12 luglio, intervistato da Marco Neirotti diceva che «il nostro Paese schiaccia la cultura, e Rai 3 schiaffa Benedetti Michelangeli in orari da 144»); Mario Luzi (sul numero di gennaio-aprile di Produzione e cultura, organo del Sindacato Nazionale Scrittori/ dice che i nostri istituti all'estero sono «un deserto», ma «non un deserto spopolato, bensì abitato da gente allo sbando»; Luzi citava il caso di una piccola ma prestigiosa editrice che traduce italiani in Svezia, soprattutto poeti ma anche classici, Guicciardini, Campanella, Manzoni, e che è stata abbandonata dallo Stato; si potrebbe anche dire punita: al suo direttore, Giacomo Oreglia, non viene nemmeno ricostruita la carriera trascorsa all'Istituto di Cultura); Lucio Colletti, su questo giornale, il 12 luglio, dichiarava che la colpa è della «terribile» qualità degli addetti culturali; e via via fino a semplici lettori, come quello che ha scritto alla Stampa contro Grytzko Mascioni, reo, secondo lui, di pensare ai fatti propri a Zagabria. Mascioni gli ha risposto qui l'8 settembre. Faceva un riassunto della polemica su questo giornale (27 luglio) il direttore generale delle relazioni culturali, Michelangelo Iacobucci, annunciando l'avvio, recente o prossimo, di programmi di potenziamento, tra i quali la Commissione Nazionale per la Promozione della Cultura Italiana all'Estero, e concludendo con una difesa che vai la pena di discutere: «Noi siamo preposti a vendere al meglio pacchetti culturali per i quali è responsabile il retroterra italiano». Dunque, se all'estero non va cultura italiana, è perché il retroterra non ne fornisce. Non basta che la cultura esista (libri, film, lirica, teatro). Dev'essere anche fornita in pacchetti, e i pacchetti devono essere vendibili. Gli addetti culturali son venditori di pacchi. Ormai ne conosco parecchi, di direttori d'istituto, e devo dire che questo giudizio, se interpreta il pensiero di Iacobucci, mi sembra peggiorativo e non giustificato. La cultura italiana che va alll'estero è poca cosa, niente, in confronto a quella che la nazione produce; e non è la parte migliore. La nazione produce molto di più e di meglio. In tutti i campi: per questo si lamentano registi, direttori d'orchestra, poeti, scrittori, filosofi. E' come se nessun campo fosse soddisfatto, né letteratura né cinema né arte né pensiero. Se poi vai all'estero, e parli con i direttori d'Istituto, scopri che tutti han letto, sono informati: quel che fanno è una minima porzione di quel che sanno. Spesso la loro biblioteca privata è più ricca di quella dell'istituto. Sono sotto-potenziati. Per restare ai nomi che ormai sono entrati nella polemica perché già messi da altri, Zagabria seleziona e fa tradurre autarchicamente, autori che altrimenti là non arriverebbero mai, Mario Luzi e Riccardo Muli: entrambi critici del nostro disimpegno culturale all'estero Ognuno riceve all'anno 40 milioni: una elemosina che non serve quasi a niente ma in un anno può farne due-tre, non di più. Quel che ha fatto Oreglia (creare una piccola editrice non commerciale, che funzioni da ponte con la cultura straniera: importando la nostra là, esportando la loro qua) non è un gesto da punire (per 40 anni di lavoro, gli danno 600 mila lire di pensione), ma da premiare e da imitare. Ogni istituto dovrebbe funzionare così: ma non a spese del direttore o di qualche funzionario. E qui siamo al nocciolo del problema. Il nostro governo non si occupa di esportare la cultura nazionale, perché eredita l'autarchia fascista? Perché esprime l'idea borghese che l'economia è tutto, la cultura un di più? Perché i concorsi per gli addetti culturali son finti, gli addetti sono ignoranti? Perché i politici hanno un complesso di inferiorità verso gli intellettuali, e così si vendicano? Eredità fascista, mentalità borghese, classe politica, impreparazione dei dirigenti: io credo che la causa sia un'altra, più concreta e banale: i soldi. Questa lunga polemica, che non finirà certo qui, a me sembra la rissa per sbranare un osso spolpato; come ricorda Iacobucci, ogni Istituto riceve una somma che mediamente si aggira sui 3040 milioni l'anno. Una elemosina. Con quei soldi non puoi fare niente. Non può fare niente Iacobucci da Roma, non possono fare niente i direttori sparsi per il mondo. Non puoi stampare, non puoi proiettare, non puoi recitare, non puoi nemmeno comprare libri. In tre mesi, hai chiuso. E' la prova di una così scarsa considerazione per la cultura, che rasenta il disprezzo. Del resto, se tanti numeri telefonici sono sbagliati, nell'elenco degli istituti, una ragione ci sarà: Roma non li chiama mai, li ha dimenticati. Ferdinando Camon